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Il palio di Kursk

Ottant’anni fa, Hitler tentava l’operazione Cittadella in Russia. Oggi ci riprova Zelensky, col supporto Nato

È proprio vero, come diceva Vico, che la storia s’impasta di corsi e ricorsi, sempre le stesse robe, con l’aggravio che si presenta una prima volta in forma di tragedia e una seconda come farsa, sosteneva barbon Marx. Piglia Kursk, per esempio. Da settimane, gli ucraini hanno scatenato un’offensiva ai confini con la Russia, nella stessa area dove Hitler tentò lo sfondamento durante la terza e ultima offensiva sul fronte orientale, con la prospettiva di chiudere la partita a Est, dopo le fallite avanzate dei due anni precedenti. Vedere come andò allora può essere istruttivo per l’oggi.

Kursk, 5 luglio 1943

Ai primi di luglio del ‘43, dopo una serie di rinvii, il meglio delle panzerdivision e delle divisioni corazzate ss ancora su piazza tentano una manovra a tenaglia per eliminare il saliente di Kursk e con esso buona parte delle forze sovietiche, per poi puntare nuovamente su Mosca: l’operazione Cittadella. Le linee difensive russe sono munitissime, la sproporzione è di oltre due a uno per gli uomini e quattro a uno per i mezzi ma i tedeschi non si fanno problemi. Attaccano e, ovviamente, non se la passano bene. Avanzano pochi chilometri, con perdite altissime. Uno dei bracci della tenaglia si blocca e buttano dentro tutte le riserve corazzate di cui dispongono, compresi i nuovissimi Ferdinand, Tiger e Panther, che però prendono fuoco come cerini se colpiti ai serbatoi, alle terga. Anche i russi buttano nella mischia le riserve corazzate della V° armata, per ordine diretto di Stalin. Quel che ne viene fuori è una mischia furibonda, un cozzo di carri che si tirano addosso l’un l’altro. Al termine della più grande battaglia di carrarmati della storia (finora) restano sul terreno migliaia di carcasse fumanti. Per i russi è un’ecatombe ma i tedeschi non passano e le loro perdite non sono rimpiazzabili. A far precipitare la situazione l’ordine di Hitler di trasferire, nel bel mezzo della battaglia, le migliori unità sul fronte italiano, dopo lo sbarco degli Alleati in Sicilia (10 luglio), e nell’imminenza del crollo del fascismo (19 luglio). Tempo di organizzarsi e i russi contrattaccano, sfondano il fronte di 150 chilometri e nessuno riuscirà più a fermarli, fino a Berlino. Veniamo ai giorni nostri.

Kursk, 6 agosto 2024

Ai primi d’agosto, diverse brigate meccanizzate, col supporto di compagnie di mercenari e reparti Nato sotto copertura, sfondano le linee russe presso Kursk. La sorpresa è totale. In poche settimane conquistano oltre mille chilometri quadrati (grossomodo la metà della provincia di Rieti) e catturano centinaia di prigionieri, per non parlare dei caduti, anche se a costo di notevoli perdite. Da più parti, anche negli alti vertici militari della stessa Nato che ha fornito supporto in uomini e mezzi, oltre che la copertura informativa e la tecnologia necessaria all’operazione Kursk, sottolineano l’incongruenza dell’offensiva. Le Ardenne di Zelensky, dice qualche acuto analista, rievocando il canto del cigno delle panzerdivision hitleriane. Perché portare la guerra in territorio russo, sottraendo forze alla difesa del fronte del Donbass, dove i russi sono all’attacco e minacciano lo sfondamento a Pokrovsk, si chiedono gli esperti caduti dal pero?

Tre obiettivi per un’offensiva

L’offensiva ha un triplice scopo. Innanzitutto sottrarre forze al fronte meridionale, permettendone la stabilizzazione. Poi conquistare due importanti snodi energetici, la centrale atomica di Kurčatov e quella di stoccaggio gas a Sudza; obiettivo, quest’ultimo, raggiunto con il blocco delle ultime forniture di gas alla Slovacchia e all’Ungheria, recalcitranti membri della Nato, contrari alla recrudescenza delle operazioni belliche e ai diktat di Washington e di Bruxelles. Al gasdotto principale, il Nordstream, avevano già pensato i servizi inglesi e polacchi – ormai le inchieste non lasciano dubbi – con buona pace della Germania e del resto dell’Europa che si è visto tagliare le forniture russe. Terzo, e buon ultimo, l’offensiva arriva nel momento in cui il piano di pace proposto da Trump e mediato da Orban sembrava attecchire a Kiev, oltre che a Mosca. Col territorio della federazione occupato nessuna pace è possibile e, soprattutto, gli ucraini dispongono di una forte merce di scambio nel momento in cui si dovranno sedere al tavolo della pace e stabilire il passaggio dei territori. E poco importa che i russi abbiano al momento conquistato cento volte tanto terreno, oltre centomila chilometri quadrati. Tutto ciò, senza contare il successo mediatico d’aver preso a schiaffi i russi a casa loro, mostrando che le forze ucraine sono ancora pienamente operative, quando tutti le davano quasi spacciate e prossime alla fine. Anche se col palese supporto Nato, dunque in una guerra d’aggressione aperta ancorché non dichiarata, la prima su suolo russo dai tempi dell’invasione dell’Asse.

E adesso, pover’uomini?

E adesso, poveruomini, parafrasando un romanzo di Hans Fallada, che ne sarà dei contendenti? Dopo due anni e mezzo di guerra, la situazione sul terreno è più ingarbugliata, la soluzione più lontana. Putin ha mostrato ancora una volta, se ce ne fosse bisogno, di non essere in grado di concludere manu militari il conflitto rapidamente. Poteva farlo con una guerra lampo all’inizio, e si è lasciato scappare il boccone. I russi si sono impantanati in una guerra di posizione, di media intensità e lunga durata, continuando a fare gli stessi errori palesati, da ultimo, dall’offensiva ucraina. Da parte sua Zelensky ha conseguito un successo tattico effimero, che può ritorcersi presto contro con la perdita dei territori contesi sul fronte sud e fargli rimpiangere il doppio rifiuto ai piani di mediazione, prima turco poi ungherese. Ha preferito dare ascolto ai suoi padroni malpaganti, alle sirene angloamericane, tentare il tutto per tutto gettando sul tavolo le carte del mazzo sopravvissute alla fallita controffensiva dello scorso anno. Miliardi in armamenti, spesso affidati a mani inesperte, come i nuovissimi Leopard e F16 – il primo dei sei già caduto per fuoco amico – vecchi di vent’anni. Armi che finiscono sforacchiate nel museo all’aperto allestito a Mosca. Prestiti, in dollari, che rientrano nelle casse nordamericane. Un doppio affare per le industrie Usa, un massacro per l’Europa.

Il Palio della non vittoria

Una tragedia epocale che, a differenza della guerra parallela in Medio Oriente, forse finirà solo con l’eventuale elezione al secondo mandato di Trump, se mai Donald arriverà a fine corsa e farà quanto promesso. Ma la duplice invasione ha complicato tutto, la guerra proseguirà, salvo imprevisti e colpi di scena, con assalti alle trincee degni di Verdun e bombardamenti terroristici sulle città dell’una e dell’altra parte. Sulle teste di un popolo che si voleva fraterno, già diviso ottant’anni fa sotto le bandiere rosse o le insegne hitleriane. Come il tridente che campeggia sulla maglietta di Zelensky e gli scudetti ucraini, simbolo mutuato dalle squadracce filonaziste di Banderas. I due pover’uomini che si sono mostrati incapaci di vincere non potranno che perdere, e con essi l’Europa, dilaniata e dissanguata da un conflitto estraneo ai propri interessi. Gli architetti di Euromaidan possono ben compiacersi del proprio sanguinoso lavoro, della logica del Palio di Siena fatta propria. Anche se il loro cavallo non vincerà, quello dell’avversario non arriverà a fine corsa.

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