Davvero questa legge è un deterrente alla violenza di genere? Le femministe smontano il “capolavoro” di Alfano.
di Marina Zenobio e Tania La Tella*
Con troppo facile entusiasmo era stato accolto il decreto legge 93/2013 “Disposizioni urgenti in materia di sicurezza e per il contrasto della violenza di genere, nonché in tema di protezione civile e di commissariamento delle province”, varato dal governo Letta in pieno agosto, successivamente modificato e diventato legge lo scorso 11 ottobre.
Un entusiasmo che non avevamo fin da subito condiviso, noi come molte altre donne e associazioni, non solo nello specifico “per il contrasto della violenza di genere”, ma anche perché inserito in un dispositivo complessivo a forte impronta securitaria e che dà ulteriore potere al sistema di controllo poliziesco.
Il riferimento è al Capo II del decreto che recita testualmente “Norme in materia di sicurezza per lo sviluppo, di tutela dell’ordine e della sicurezza pubblica e per la prevenzione e il contrasto di fenomeni di particolare allarme sociale” e l’articolo 7 con le sue “Disposizioni in materia di arresto in flagranza in occasione di manifestazioni sportive e per il contrasto alle rapine, nonché in materia di concorso delle forze armate nel controllo del territorio” che sembra scritto ad hoc per tentare di bloccare quelli che il governo definisce, appunto, “fenomeni di particolare allarme sociale” come, tanto per fare alcuni esempi, la lotta dei No Tav, dei No MUOS, No Ponte, e così via.
Vien da pensarlo come un pacchetto sicurezza che si trascina dietro un aspro sapore di “strategia della tensione”. L’articolo 7 del Capo II è stato approvato senza emendamenti sostanziali e non ci piace un pot-pourri con cui il governo ha messo insieme norme antifemminicidio e norme per reprimere il dissenso.
Per quanto riguarda invece lo specifico del “contrasto alla violenza di genere”, dobbiamo dire che nella legge approvata si sono evidenziate modifiche importanti e positive rispetto al Decreto iniziale. Tali modifiche si devono all’impegno e alla determinazione delle associazioni di donne, in particolare di D.i.Re. -Donne in rete contro la violenza alle donne -, di cui fanno parte più di 60 centri antiviolenza distribuiti su tutto il territorio nazionale.
La “Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica”, meglio nota come “Convenzione di Istanbul”, chiede ai governi impegni radicali nella lotta contro la violenza di genere, impegni e misure che devono affrontare, nell’ordine, la Prevenzione, la Protezione e solo infine la Punizione, le tre P.
In Italia, il lavoro di Prevenzione e Protezione è portato avanti, da quasi venti anni, da un centinaio tra centri antiviolenza e case rifugio, con estrema difficoltà per la costante carenza di fondi. Ciò nonostante di essi non vi era alcun cenno nel D.L. 93/2013, prevalentemente incentrato a sviluppare la terza P, ossia la “Punizione”. Come se una legge pensata solo per punire i responsabili potesse davvero rappresentare un deterrente alla violenza maschile contro le donne; una legge applicata all’interno di un contesto – politico, economico e culturale – in cui le donne continuano ad essere discriminate e vittime di stereotipi duri a morire.
Quello che abbiamo chiesto è il riconoscimento del ruolo dei centri antiviolenza, del loro bagaglio culturale e politico, una legge che preveda un adeguato sostegno finanziario e l’istituzione di un comitato nazionale sulla violenza di genere, al fine di garantire un coordinamento delle attività di prevenzione e contrasto della violenza su tutto il territorio nazionale, nonché il monitoraggio del fenomeno. Ad oggi, gli unici dati sul femminicidio si devono, ancora una volta, al lavoro dei centri antiviolenza; è a loro che si rivolgono i media o altri organismi per conoscere le dimensioni del fenomeno.
Solo in parte abbiamo ottenuto quanto richiesto perché nella legge approvata rimangono pur sempre dei punti molto criticabili. Come l’articolo 5, che fa riferimento all’elaborazione di un “Piano di azione straordinario contro la violenza sessuale e di genere”. Purtroppo di straordinario nella violenza maschile contro le donne c’è ben poco, non è una emergenza in quanto è un dato strutturale della nostra società che non può essere affrontato con misure straordinarie. Inoltre la Legge fa rientrare il “contrasto alla violenza di genere” in un pacchetto in cui la donna è dichiarata come “soggetto debole” da tutelare persino da se stessa, togliendole finanche il diritto di autodeterminazione, laddove le impedisce di revocare la querela.
Il governo continua a voler ignorare che tante donne sono state uccise dopo che avevano ripetutamente e inutilmente denunciato. Pur dando per buono che l’irrevocabilità della querela sia stata introdotta con l’intento di proteggere la donna da eventuali minacce o ritorsioni, si tratta pur sempre di “una responsabilità che al momento lo Stato non è in grado di assumersi” perché non è ancora in grado di tutelare la vittima. Non ne è in grado sia in termini di sicurezza personale della donna, sia per l’indisponibilità immediata di risorse dirette a favorire un reale percorso di uscita dalla violenza. In pratica non esiste ancora in Italia un sistema di protezione efficace per le donne vittime di violenza e, di conseguenza, per i figli minori.
Un sistema di protezione per essere veramente efficace dovrebbe prevedere l’esistenza di una rete radicata, funzionante ed estesa su tutto il territorio nazionale, un numero di centri antiviolenza e case rifugio proporzionato alla popolazione e adeguatamente finanziato e, soprattutto misure concrete di sostegno per le donne, vale a dire: casa e lavoro. In mancanza di tutto questo l’introduzione dell’irrevocabilità della querela può rivelarsi un boomerang perché le donne, non avendo certezza del loro futuro e sapendo che una volta presentata la denuncia non possono più tornare indietro, rinunceranno a sporgere denuncia e la violenza da loro subita non rientrerà neanche più nei dati statistici.
Adesso che anche l’Italia ha la sua legge contro la violenza di genere i politici si dicono soddisfatti. Noi aspettiamo invece di vederne l’applicazione, la reale distribuzione dei finanziamenti destinati ai centri antiviolenza e le sua modalità di attuazione.
Continuiamo ad essere convinte che non si può affrontare un problema strutturale come quello della violenza sulle donne e sui minori, attraverso una legge “emergenziale”. Il femminicidio, come estremo drammatico atto, e la violenza contro le donne nella sua complessità, è un fenomeno radicato nella società e in una cultura inzuppata dal dominio del genere maschile (siamo vetere se lo definiamo patriarcato?). Se si vuole realmente “contrastare la violenza maschile contro le donne” è necessario affrontare il fenomeno sia da un punto di vista culturale che attraverso una serie di investimenti economici mirati. Lavorare in primo luogo sulla prevenzione – portando nelle scuole contenuti che mettano in discussione gli stereotipi sia maschili che femminili – e sulla protezione – puntando su un programma di protezione delle vittime, accompagnarle nel percorso di uscita dalla violenza, tutelarne l’incolumità a partire dalla denuncia e mettere a loro disposizione strumenti concreti: casa e lavoro.
(*) Associazione “Donne in genere”/Centro antiviolenza “Donna L.I.S.A” www.centrodonnalisa.it