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Francesco Lorusso: processo mancato, giustizia negata

Nel ’77, l’11 marzo, un carabiniere uccideva un militante di Lotta continua. Oggi Bologna ricorda e un libro di Franca Menneas, per la prima volta, ricostruisce la storia dell’inchiesta

 

Nel ’77, proprio l’11 marzo, un carabiniere prese la mira, sparò e uccise Francesco Lo Russo. È il primo e unico morto ammazzato a Bologna in scontri di piazza dai tempi della Liberazione e quel proiettile segna indelebilmente la città imprimendole una ferita ancora oggi non del tutto rimarginata.

Oggi a alle 10 appuntamento davanti alla lapide in via Mascarella, per ricordare Francesco Lorusso a 38 anni dal suo omicidio. Nell’occasione, su iniziativa del Centro di documentazione dei movimenti “Francesco Lorusso – Carlo Giuliani”, verrà affissa una targa sulla teca che copre le tracce degli spari esplosi quel giorno dai Carabinieri: poche e semplici righe, per rendere manifesto il significato e il valore storico di quel pezzo di muro, anche alla luce del fatto che più volte la teca è stata imbrattata da mani forse inconsapevoli. La sera, alle 18, manifestazione da piazza Verdi: “Tutti e tutte in piazza per Francesco. La memoria viva è la lotta d’oggi!”. Popoff pubblica l’introduzione a Omicidio Francesco Lorusso. Una storia di giustizia negata di Franca Menneas (Pendragon, pag 256, 16 euro, 2015)

Questo libro si propone di ricostruire la vita e la morte di quel ragazzo falciato una mattina in cui i giovani del movimento e le forze dell’ordine si affrontano nel pieno centro storico. L’episodio si inserisce in un contesto che vede da una parte le rivendicazioni dei “non garantiti” attanagliati dalla crisi economica e, sul versante opposto, il Pci al governo della città, colpendo entrambi i fronti. Da queste pagine, basate sull’incrocio di atti giudiziari e testimonianze, perizie balistiche e necroscopiche, cronache dei giornali, documentazione letteraria, memorie e interviste, nasce una ricostruzione corale intessuta da voci diverse, talvolta contrapposte. Per la prima volta la storia anche giudiziaria, alla ricerca delle ragioni per cui quel delitto è stato seguito da un “mancato processo” e quindi da una giustizia negata.

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di Franca Menneas

Quando viene colpito dal proiettile è leggermente girato sul lato sinistro, per voltarsi e tentare la fuga nella direzione opposta dalla fonte del pericolo. Francesco Lorusso, studente ventiquattrenne, militante di Lotta continua, muore in via Mascarella, a Bologna, una strada che dall’omonima porta medievale, finisce nella centralissima via Belle Arti, nel cuore della cittadella universitaria. La strada è tagliata in due da via Irnerio, importante arteria della città, che divide Mascarella “vecchia”, la parte verso il centro, dalla “nuova”. Svoltando da via Irnerio verso il cuore della città, dopo 20 metri circa si trova un muro di “risega” che restringe il portico di sinistra. Sul muro, protetti da una lastra di plexiglass, si possono ancora scorgere almeno 15 segni “degni di attenzione”, secondo i periti balistici che lo hanno esaminato: buchi di chiodi, incrostature della malta cementizia, fori di proiettile a ricordarci il teatro di fuoco in cui si è consumato l’omicidio Lorusso. Ferito da una pallottola che lo raggiunge in pieno petto nelle prossimità del muro, riesce a voltarsi e a percorrere un tratto di strada prima di rovinare sul selciato all’altezza del civico 37, dove al muro i suoi “compagni” appenderanno una lapide commemorativa in cui si legge: «Assassinato dalla ferocia armata di regime».

L’11 marzo 1977 per Bologna è una giornata come tante altre, fredda, piovigginosa. Nella vicina piazza Verdi, il via vai di studenti è lo stesso di tutti giorni, chi discute della mobilitazione dell’occupazione universitaria in atto, chi bivacca nella sede dei collettivi o nel “bunker”, la sede dell’Autonomia operaia. Spunta qualche banchetto per la raccolta delle ultime adesioni alla manifestazione del movimento degli studenti organizzata per il giorno dopo a Roma da Lotta continua. Non molto lontano, all’Istituto di anatomia in via Irnerio 48, per le 10 è convocata un’assemblea del gruppo cattolico Comunione e liberazione. All’assemblea si accede previo invito degli organizzatori, non tutti sono ammessi, a iniziare dagli aderenti di quello oramai noto come movimento: studenti, operai, precari, appartenenti a diverse formazioni politiche e non, vicine alle posizioni dell’estrema sinistra. Alcuni di questi si presentano alla porta, ma il servizio d’ordine di Cl impedisce loro l’ingresso. Parte una scazzottata alla fine della quale si conterà un paio di contusi. La situazione si complica all’arrivo di un cospicuo contingente delle forze dell’ordine allertato dal rettore Carlo Rizzoli. Gli scontri iniziali tra le parti in lotta hanno fine e iniziano quelli tra studenti di sinistra e agenti. I manifestanti cercano di attaccare con molotov e sanpietrini, i contingenti delle forze dell’ordine tentano di rientrare nelle caserme passando da via Irnerio e gli agenti rispondono con il lancio di numerosi lacrimogeni. Tutti tranne uno, che decide di usare le armi da fuoco in due situazioni distinte, ritenendo i lacrimogeni non più sufficienti a sedare “il pericoloso attacco”.

Era in atto una “sommossa”, una “guerriglia urbana” in quel luogo e in quel momento, scriveranno in seguito i giudici, ed era doveroso arginarle per non mettere a repentaglio la vita dei militari e dei civili. Bisognava fermare l’aggressione, perciò gli agenti erano legittimati all’uso delle armi, armi vere, non più solo lacrimogeni. All’incrocio tra le vie Irnerio e Mascarella, una bottiglia incendiaria raggiunge un autocarro militare dal quale inizia a divampare un piccolo rogo. Un carabiniere spara con la sua Beretta calibro 9, lo vedono in tanti, testimoni che cercano di identificarlo, di ricostruire i suoi movimenti, la posizione del braccio mentre fa fuoco e, soprattutto, affermano di non aver visto nessun altro sparare. Certezze, queste, sufficienti a risolvere l’enigma su chi abbia sparato e ucciso Francesco Lorusso. 11034290_10205014964246956_7497175956298524695_n

E invece, a distanza di 38 anni, ancora non sappiamo chi abbia ammazzato un ragazzo. O meglio, la giustizia italiana ha individuato chi fece fuoco, ma non lo ha giudicato responsabile, quindi punibile, poiché ha giudicato legittimo il suo uso delle armi.

“Sommossa”, secondo il dizionario della lingua italiana, è un “tumulto popolare di notevoli proporzioni”. A Bologna, la mattina dell’11 marzo vi è un gruppo di giovani che cercava, tramite un’azione violenta, di disturbare il transito dei mezzi e degli agenti in via Irnerio. «La sommossa, se così vogliamo chiamarla, ci fu dopo l’assassinio di Francesco, non prima», si legge in un supplemento del quotidiano Lotta continua- «Del resto come si può parlare di “sommossa” e “guerriglia” se fino alle 13.00 dell’11 marzo non ci fu neppure un contuso tra gli agenti e tutto si ridusse a una bruciatura di un metro quadrato sul telone di un camion?». Visto in questa chiave, l’omicidio Lorusso segna l’inizio dello scontri e non l’epilogo.

Appena la notizia della morte di uno studente si diffonde in città, piazza Verdi inizia a riempirsi di giovani increduli, ragazzi che stentano a capire quel che è successo, che non vogliono realizzare ciò che è accaduto. La loro rabbia esploderà in una rivolta che terrà tutto il centro cittadino sotto assedio per tre giorni e che non avrà paragoni con quanto avvenuto nei mesi precedenti.

A decenni di distanza, la ferita inferta da quei fatti è tutt’altro che rimarginata. Il ricordo di quelle giornate è ancora vivo tra i bolognesi e ogni 11 marzo si commemora la morte di Lorusso. È il “passato che non passa” in una città ancora divisa che pare affidare all’oblio l’opera di riconciliazione, di riparazione di quello strappo. Il 1977 è l’anno dell’esplosione di un movimento studentesco che, partendo dalle università, apre una stagione di lotte a cui si uniranno gruppi giovanili di diversa provenienza, soprattutto a Roma e Bologna. L’11 marzo rimarrà impresso nella storia bolognese perché si conterà il primo e unico morto ammazzato durante scontri di piazza in città dalla Liberazione.

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Il ricordo dei “fatti di marzo” divide coloro che l’hanno vissuto intensamente e coloro che l’hanno subìto. Ancora adesso, per alcuni, quegli eventi evocano malinconia, sono un’occasione mancata per ripensare le regole della convivenza civile, più attente alla persona e alle sue esigenze. Per altri, ci furono solo violenza, rabbia e disordini che misero a ferro e fuoco l’intera città. Del movimento bolognese del ’77 si ricordano i lunghi cortei che sfilavano per le vie del centro storico; le scorribande degli auto-riduttori con la loro forma di protesta esagitata; le innumerevoli e fumose assemblee, dove si discuteva a oltranza durante l’occupazione dell’università; le scritte ironiche sui muri delle facoltà e i murales sotto i portici di via Zamboni; la cittadella universitaria, luogo “conquistato” e “liberato”, con la sua agorà, piazza Verdi, luogo di incontri, di ore e ore passate a “bighellonare” o ad aspettare il proprio turno nel lungo serpentone, della fila all’Opera della mensa universitaria. Si rammentano i numerosi happening, promossi dagli indiani della “riserva metropolitana”, ragazze e ragazzi festosi, colorati, ben incorniciati nei numerosi scatti fotografici tramandatici. E poi le case in comune, occupate, vissute assieme, laboratori di idee e fucine di utopie; le interminabili trasmissioni di Radio Alice, i lunghi monologhi, le telefonate in diretta e tanta musica. Tutto ciò traspare dal materiale fotografico, letterario, dai documenti, dalle numerose testimonianze e memorie di coloro che hanno vissuto quel ’77. Per un’altra parte della città sono molto più impresse nella memoria le immagini in bianco e nero delle prime pagine del Resto del Carlino e dell’Unità dopo l’omicidio Lorusso, immagini di guerra, con le strade presidiate dai blindati e dai numerosi agenti in tenuta antisommossa, inondate di fumo, invase dai gas, ostruite da barricate improvvisate, ristoranti di lusso saccheggiati. E soprattutto come cancellare dalla mente le vetrine spaccate, indelebile simbolo dell’offesa arrecata alla Bologna “perbenista” e “bottegaia”?

Quando si pensa all’11 marzo 1977 è impossibile non rievocare l’immagine del corpo inerme di un giovane steso su una lettiga o i segni del gesso sul muro di via Mascarella. Nella coscienza dei bolognesi è ben impresso il ricordo di quegli avvenimenti che sconvolsero la città, portando un senso di sconforto e un turbamento mai vissuti prima di allora. Bologna, modello della buona amministrazione comunista, si scopre non lontana dalle altre realtà, segnate dai numerosi episodi criminosi cristallizati dalle cronache dell’epoca. Si ritrova sconvolta dalla presenza di un corposo movimento di giovani che mette in atto una forte contestazione, non rinnegando, o almeno non del tutto, l’uso della violenza come metodo di lotta politica. Il Partito comunista, al governo della città, non capì la forza e l’importanza di una tale contestazione e non riuscì ad arginare il dissenso, non seppe dare risposte adeguate.

Resta una città segnata, un morto ammazzato in piazza, una famiglia distrutta, un’inchiesta giudiziaria che non ha dato risposte adeguate alla necessità di giustizia, alla voglia di verità.

Resta uno Stato a chiedersi se alla tutela e alla garanzia dell’uguaglianza dei cittadini davanti alla legge non sia da preferire la protezione, in qualunque caso e a tutti i costi, di chi lo rappresenta.

L’intento di questo racconto è quello di ricostruire la vita e la morte di Pier Francesco Lorusso partendo da una tesi in storia contemporanea dal titolo Omicidio Pier Francesco Lorusso: storia di un processo mancato, presentata all’Università di Bologna . Poi, dopo quel primo lavoro, è sopraggiunta l’esigenza di riprendere e approfondire quella storia nonostante, dal 1977 a oggi, sia stato scritto tanto sui “fatti di marzo”. Ma le pagine che seguono discendono da un’esigenza specifica: mettere a confronto le ricostruzioni fatte dai giudici, riesaminare le fonti, produrne di nuove, per cercare di delineare tutti i passaggi salienti del “mancato processo”.

10999505_10205014970007100_2328546569883428063_nPer farlo, sono stati consultati atti giudiziari, testimonianze, perizie balistiche e necroscopiche, cronache dei giornali, documentazione letteraria, memorie e interviste. La parte più rilevante è costituita dalle carte processuali prodotte dai legali di parte civile e trasmesse poi alla famiglia Lorusso. Nonostante le ripetute richieste, non è stato possibile invece visionare gli atti conservati nell’archivio del tribunale di Bologna perché non erano laddove avrebbero dovuto essere conservati. Causa di ciò sarebbero i continui traslochi dell’archivio e i molteplici spostamenti subiti dalle carte stesse per le ripetute richieste di disamina da parte degli organi inquirenti. Dunque la documentazione visionata è quella raccolta nel Fondo Associazione Pier Francesco Lorusso, conservato a Bologna dall’Istituto Storico Parri Emilia-Romagna.

Fondamentali per questo racconto sono state le testimonianze dei diretti protagonisti che per la prima volta hanno fornito la propria versione dei fatti. La necessità di produrre nuove fonti muove da diverse esigenze. Analizzando le carte processuali dell’omicidio Lorusso, infatti, ci si rende subito conto dell’assenza delle voci dei giovani del movimento. Le testimonianze raccolte dai giudici sono solo quelle dei militari, degli studenti di Comunione e liberazione, di passanti, lavoratori o commercianti. Manca, quindi, la versione dei compagni di Francesco: per questo, dodici delle persone intervistate sono ex appartenenti al movimento degli studenti. Oltre alle testimonianze dei militanti di Lotta continua, degli autonomi, degli anarchici e degli avvocati di parte civile della famiglia Lorusso, ne sono state raccolte due di appartenenti alle forze di pubblica sicurezza presenti agli scontri. Si è cercato invano di contattare il capitano dei carabinieri al comando degli agenti in forza quella mattina, Pietro Pistolese. Si è invece reso inizialmente disponibile il militare di leva Massimo Tramontani, principale indiziato dell’omicidio: dopo una lunga chiacchierata nella quale si è ricostruita la scena degli avvenimenti dell’11 marzo, ha deciso di non consentire la pubblicazione della sua intervista.

Infine, per avere una visione complessiva, sono stati sentiti anche alcuni esponenti bolognesi delle principali forze politiche di allora, compresi i leader delle formazioni giovanili. Le interviste raccolte ci indicano chiaramente quanto coloro che vissero quei fatti li abbiano letti ed elaborati in modo diverso. Per questo sono proposte integralmente in appendice, proprio per restituire al lettore la misura della conflittualità ancora presente nel ricordo di quegli avvenimenti.

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L’Associazione Pier Francesco Lorusso lancia la sfida di raccogliere 1.800 euro per la pubblicazione del libro Omicidio Francesco Lorusso – una storia di giustizia negata di Franca Menneas, in collaborazione con GINGER, che ha già portato al successo Un passo per San Luca, progetto di crowdfunding che – soprattutto grazie al  contributo dei cittadini di Bologna – ha permesso di superare l’obiettivo di 300.000 euro per il restauro del portico più lungo del mondo.

http://www.ideaginger.it/progetti/omicidio-francesco-lorusso-una-storia-di-giustizia-negata.htmlSi può donare anche tramite bonifico bancario
all’IBAN: IT 53 Y 05018 02400 000 000 159900 – 
c/c Banca Etica, intestato a GINGER

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