Da Fassino e Dini fino a Pecorella e Castelli: come i governi di centrodestra e centrosinistra hanno provato a far fessa la Convenzione contro la tortura
di Carlo Perigli
Considerato il dibattito pubblico che si è scatenato dopo la sentenza Cestaro vs. Italia, è bene precisare un punto: non è vero che l’Italia non si è mai interessata dei suoi obblighi internazionali per quanto riguarda la tortura, che si è svegliata di colpo solamente quando la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha finalmente chiamato le cose con il loro nome. Dal 1989, anno in cui è stata ratificata la Convenzione contro la Tortura, l’argomento si è più volte presentato nel dibattito politico, ricevendo un trattamento che il lettore potrà tranquillamente giudicare, cogliendo l’occasione per maturare un opinione anche sulle dichiarazioni sdegnate che alcuni esponenti di lungo corso della classe politica nostrana si sono apprestati a rilasciare.
Un’opinione sul reato di tortura l’Italia ce l’aveva già nel 1990 e nel 1994, quando, nel primo come nel secondo rapporto inviato al Comitato contro la Tortura, viene specificato che un reato autonomo di tortura non è necessario, poichè tutte le fattispecie che lo compongono sono già previste nel nostro codice penale. Poco importa se si tratta di reati comuni e non di un crimine internazionale, con tutte le differenze che questo comporta per quanto riguarda giurisdizione, prescrizione e ammontare della pena, nè tantomeno che la Convenzione, ratificata solo pochi anni prima imponesse un obbligo (art. 4.1), non una scelta.
Pacta sunt servanda – i patti devono essere osservati – e il Comitato non perde occasione per farlo notare. Così, nella XIII legislatura (1996-2001) l’Italia ci riprova, attraverso la presentazione di 5 proposte di legge – Cicu, Semenzato, Salvato, Lo Curzio e Fassino-Dini. Nonostante nessuna di queste sia mai stata discussa in Parlamento, la Fassino-Dini è particolarmente rilevante per due ordini di motivi: è la prima ed ultima proposta di natura governativa in materia ed è anche la sola, almeno in questo periodo, a prevedere la tortura non come un reato autonomo, ma come aggravante. In altre parole, il ministro degli esteri e quello della giustizia dell’epoca proposero una legge sulla tortura che non rispettava gli obblighi internazionali cui l’Italia era vincolata. Niente male no?
Cambiano i governi ma la musica è sempre la stessa; nella XIV legislatura (2001-2006) troviamo altri 7 disegni di legge presentati dai parlamentari – Ruzzante, Piscitello, Biondi, De Zulueta, Pianetta, Pianetta e Salvi. In seguito al dibattito in Commissione Giustizia e dopo aver ricevuto le osservazioni dal Comitato, venne calendarizzato in aula il progetto di legge n. 4990 (Pecorella), che prevedeva si l’introduzione di un reato autonomo di tortura, configurandolo tuttavia, in seguito agli emendamenti presentati da Lussana e Rossi (Lega Nord), solamente a fronte di una condotta reiterata. Neanche questa volta la norma proposta è in linea con gli obblighi internazionali, ma poco importa, perchè tanto arriva la fine della legislatura e ogni progetto di legge naufraga con essa.
Altro giro, altra corsa, nella XV legislatura (2006-2008) emergono 4 proposte di legge (Pecorella, Forgione, De Zululeta e Suppa) e altrettanti disegni di legge (Biondi, Bulgarelli, Pianetta, Iovene). Sebbene un testo fosse stato approvato dalla Camera dei Deputati nel gennaio del 2006, la discussione al Senato non ha avuto luogo per via dell’improvvisa fine della legislatura. Inoltre, in maniera piuttosto curiosa, nei rapporti con il Comitato contro la Tortura l’Italia decide di tornare indietro di 17 anni, comunicando che tutti gli obblighi stabiliti dalla Convenzione sono da considerarsi adempiuti e che “il sistema giuridico italiano prevede sanzioni per tutte le condotte che possono essere considerate come rientranti nella definizione di tortura stabilita dall’articolo 1 della Convenzione“.
Per farla breve quindi, non è vero che la politica si è ricordata della tortura solamente dopo la sentenza sulla Diaz. Prima delle dichiarazioni, degli slogan e dello sdegno, ci sono i fatti, come le 12 proposte di legge presentate nel corso della XVI legislatura (2008-2013), mai arrivate in Parlamento. In questo periodo Roberto Castelli, ministro della Giustizia dal 2001 al 2006, dichiara a Repubblica che l’assenza di una legge sul reato di tortura è imputabile al “legislatore di sinistra che ha presentato un testo inaccettabile, in cui si parlava di torture di natura psicologica, per cui io potrei accusare di tortura Prodi visto che ogni volta che lo vedo mi sento male”. Peccato che la “mental suffering” non sia un’idea malsana di un fantomatico “legislatore di sinistra”, ma emerga direttamente dal dettato dell’articolo 1 della Convenzione.
Arriviamo infine all’anno scorso, con l’approvazione nel marzo 2014 del Ddl Manconi da parte del Senato, attualmente in attesa di passare alla Camera. Positivamente il testo non prevede più lo scempio della reiterazione della condotta, ma contempla la tortura come reato comune, inserendo la partecipazione di un pubblico ufficiale solamente come aggravante e non come parte integrante del reato. Sparisce dal testo l’omissione, mentre la pena va dai 3 ai 10 anni – da 4 a 12 se è coinvolto un pubblico ufficiale, una pena che difficilmente può essere considerata in linea con le richieste del Comitato, secondo cui l’Italia deve “assicurare che tali reati siano punibili da pene appropriate, che tengano conto della grave natura di tali atti“. Probabilmente, nella “migliore” delle ipotesi, avremo quella che il giudice Settembre ha già definito “un’arma spuntata”, la cui aderenza agli obblighi internazionali sarà senz’altro oggetto di discussione.