Scatti senza carne, un mondoplastico senza figure nel ritorno dell’artista Usa a Roma
di Maurizio Zuccari
Dopo il diluvio, il mondo si fa vegetariano. Sono scatti senza carne, opere con figure assenti quelle messe in mostra da David Lachapelle – lo scriviamo così, senza c maiuscola, non ce ne vogliano gli addetti al marketing culturale – nel suo ritorno a Roma. Dopo un quindicennio d’assenza l’artista statunitense lascia il suo buen retiro su un’isola del Pacifico e torna al Palaexpò per quello che è, con tutta probabilità, l’evento primaverile capitolino. Oltre un centinaio le opere esposte, alcune per la prima volta, altre elaborate per l’occasione. Grandi formati dove scema la carnosità delle forme erotiche proprie della sua cifra stilistica, uomini e donne coi sessi in bellavista in uno scenario apocalittico, da dopo diluvio, appunto. Restano i colori sfavillanti e le pose icastiche a raccontare come meglio non si potrebbe il mondoplastico contemporaneo, il surreale quotidiano fatto di starlette sfibrate, bambole sexi ormai sgonfie e inadatte a ogni sollecitazione erotica, icone del bel tempo andato, tracollato sotto il peso del suo immaginario e delle sue finzioni.
Otto gli scenari per questa retrospettiva messa in piedi da Gianni Mercurio, fine conoscitore del contemporaneo made in Usa: dagli scenari diluviani mutuati dagli affreschi michelangioleschi al Gesù privato, immerso in una quotidianità di baldracche e scorci da slums; dagli ipercolorati avvitamenti aerei in Aristocracy ai negativi delle banconote e ai Car crash tridimensionali che amplificano il portato dell’eredità warholiana, tributo dell’artista a chi lo scoprì e lanciò nel jet set d’Oltreoceano. Ma sono gli ultimi megascatti quelli dove a farla da padrone non è più la carne ma gli oggetti, a simboleggiare un mondo più plasticoso che mai, dove l’irreale la fa da padrone in scenari iperreali privi d’ogni orpello d’umanità dolente. Così nei Land scape, paesaggi postindustriali che letteralmente si fanno fuga dalla terra, o nelle ricostruzioni di sfavillose Gas station inghiottite dalla giungla; così, soprattutto, nelle Still life floreali e nelle nature morte dove le celebrità vandalizzate al Museo delle cere di Dublino, ridotte a ciarpame trash, rievocano tra il macabro e l’orrido la vanitas del mondo.
Acqua ne è passata sotto ai ponti da quando il nostro ritraeva in languide pose e sensuali movenze le star hollywoodiane, facendo da apripista a tutta una scuola di patinose immagini da rotocalco pubblicitario, nel decennio a cavallo del millennio. Smesse tute, cappellini e scarpe da ginnastica a calcare i red carpet celebrativi, in testa un cappellaccio nero e un fisico da cinquantenne appena imbolsito, a metà tra Michel Jackson e un mariachi del New Mexico, Dave appare calmo, posato al punto da parere dopato, si direbbe riconciliato da sé stesso o ancora in trance per la crisi mistica che si vuole l’abbia colto al cospetto della Cappella Sistina. Fatto è che per quanto surreali e ai limiti del disgusto siano le sue immagini, per quanto algide e posterotiche le sue figurazioni, niente meglio dei suoi assemblaggi ipercolorati – senza l’ausilio di photoshop, assicura lui – rende l’artificio d’una finzione capace non solo di mutare la realtà, ma di tramutarsi in essa. Un mondoplastico dove l’acqua, ancora, è vista come purificazione, più che punizione. Un diluvio dove ai capolavori della storia dell’arte s’accompagna ogni lordura, escrementi della modernità galleggiano tra zombi acquatici sommersi dal presente, impossibilitati a ogni salvezza. Ma non si parli di denuncia, per carità. L’arte è e resta un (grande) gioco, per l’artista di Fairfield, Connecticut, che strizza l’occhio e lancia un sasso in questo stagnante rimescolìo d’onde della contemporaneità.
David Lachapelle, Dopo il diluvio, Roma, palazzo delle Esposizioni, dal 30 aprile al 13 settembre