Più che un fenomeno ultras, la svastica apparsa all’intervallo di Croazia-Italia sembra richiamare un percorso di legittimazione politica che risale all’indipendenza del 1991
Di Carlo Perigli
Croazia-Italia, a fine primo tempo, la svastica “emerge” in campo, davanti agli occhi esterrefatti dei telecronisti e del pubblico a casa. Tutto sommato però, niente di nuovo sotto il sole di Spalato, con i tifosi della nazionale croata che con il passare del tempo ci hanno già abituato a cori razzisti, agli stendardi con le U stilizzate degli Ustascia, o alla svastica umana “disegnata” a Livorno nel 2006. Anche questa volta, l’episodio è stato condannato come un “fenomeno ultras”, parte di un piano volto a danneggiare lo stato croato dal quale hanno preso le distanze sia la Federazione, tramite il presidente ed ex calciatore Davor Suker, che l’establishment politico, tramite il capo di Stato Kolinda Grabar-Kitarovic.
Può darsi, non abbiamo informazioni sufficienti per negare una tale ipotesi. Allo stesso tempo però, volgendo lo sguardo verso la storia, il neo-nazismo che oggi domina le curve di Hajduk Spalato e Dinamo Zagabria sembra avere la sua radice proprio nell’alveo politico. Intendiamoci, nessuno si sogna di arrivare a conclusioni del tipo “i croati sono nazisti”, ma allo stesso tempo è innegabile che lo Stato croato, a partire dall’indipendenza, abbia ripreso una narrazione in chiave nazionalista che nei fatti ha portato gli ustascia ad una nuova legittimazione politica.
Se ne accorse già nel 1991 Paolo Flores D’Arcais, che su Repubblica raccontava delle bandiere ustascia in piazza Jelalic a Zagabria. Un luogo anch’esso significativo, che fino a poco tempo prima era “piazza della Repubblica” e che ora veniva dedicato ad un bano della Croazia del 1800, la cui statua era stata rimossa agli albori della Jugoslavia socialista. Raccontava Flores D’Arcais di come il partito del Diritto, l’estrema destra che più esplicitamente si rifaceva all’eredità politica di Ante Pavelic, fosse diventato tanto popolare in così poco tempo. In contrapposizione con quel Paese che andava dissolvendosi, il nuovo establishment croato guidato dall’Hdz di Tudjman si appoggiava – neanche con troppo dispiacere – al filo della narrazione nazionalista, per attingere a tutto un insieme di simboli in grado di dargli la giusta dimensione politica.
Gli eredi di Ante Pavelic sono così tornati alla carica, sul piano politico quanto su quello militare, alle prese con la guerra in Krajina e Slavonia. Il mito della nazione ha sdoganato nuovamente il fascismo, che negli stadi ha trovato nuove incubatrici in cui crescere e proliferare. Così si arriva a Josip Simunic, che, per festeggiare la qualificazione ai Mondiali del 2014, con preoccupante naturalezza aizza la folla al grido “”Za Dom, spremni!” – per la patria, pronti! – il motto con cui gli ustascia rispondevano agli alti comandi. La stessa naturalezza con cui Kolinda Grabar-Kitarovic, la più alta carica dello Stato croato, non è stata presente al 70° anniversario della liberazione del campo di concentramento ustascia di Jasenovac lo scorso aprile. La stessa naturalezza, di nuovo, con cui – a fronte di tutto questo – ci stupiamo di fronte all’emergere di una svastica.