Vietare la pesca a trappola e subacquea, controllo dello sviluppo urbano delle coste e del turismo. Ecco la ricetta per curare i coralli dei Caraibi.
di Marina Zenobio
La Rete mondiale di controllo sulle barriere coralline (Gcrmn, nell’acronimo inglese), l’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) e il Programma ambientale dell’Onu (Unep) lanciano l’ennesimo allarme ambientale: le barriere coralline, vanto naturalistico e purtroppo turistico del mar dei Caraibi, potrebbero scomparire nel corso del prossimo ventennio. In realtà quello che ne resta, se è vero che, come riportato dai ricercatori, dal 1970 ad oggi il 50% dei coralli di quello specchio di mare sono già morti, e dove c’era quell’esplosione di colori ora è apparso un paesaggio fangoso e desolato.
L’Unione internazionale per la conservazione della natura (Iucn) ricorda che il mar dei Caraibi è la casa del 10% delle barriere coralline a livello mondiale e uno degli ecosistemi più diversificati del pianeta. Le sue acque bagnano 38 paesi che dipendono economicamente proprio da quell’ecosistema, infatti turismo e pesca generano oltre 3 milioni di dollari l’anno e una cifra molto più alta in altri beni e servizi di cui vivono 43 milioni di persone.
Secondo lo studio di Gcrmn-Iucn-Unep, a cui hanno partecipato 90 esperti, responsabile del declino dei coralli è la rottura di un delicato equilibrio di quell’ecosistema: la scomparsa di due varietà di erbivori, il pesce pappagallo e i ricci di mare, entrambi golosi di alghe; la mancanza di quella fauna ha permesso alle alghe di prosperare, invadere i coralli e soffocarli.
Sulle cause che stanno provocando la rottura dell’ecosistema si confrontano due scuole di pensiero, quella secondo cui le cause sono da ricercare nella pesca intensiva a strascico, a trappola e subacquea, nell’inquinamento delle acque, nel turismo insostenibile e nell’ipersviluppo urbano delle coste; l’altra invece punta il dito, più in generale, contro il cambiamento climatico che provoca la crescente temperatura dell’oceano.
Jeremy Jackson, responsabile della ricerca, non crede però che identificare il cambiamento climatico come responsabile del declino dei coralli sia la forma migliore di affrontare il fenomeno. Il cambiamento climatico è un problema reale del pianeta, ammette il ricercatore e ecologista dell’Iucn, ma non è la minaccia reale che insidia i coralli dei Caraibi, perché in altre barriere con lo stesso problema dove ci sono stati interventi adeguati e mirati, si sono avuti risultati positivi.
Si riporta l’esempio del Golfo del Messico, delle isole Bermuda e Bonarie che dopo aver vietato la pesca a trappola e subacquea, hanno visto tornare a riprodursi il pesce pappagallo e lo stato di salute dei coralli è migliorato. Anche l’isola di Barbuda sta decidendo di proibire la cattura del pesce pappagallo, la pesca nelle zone del riccio di mare e trasformare un terzo delle sue coste come riserva marina. Per la biologa Ayana Johnson dell’istituto californiano per la protezione degli oceani, solo dietro drastiche decisioni, applicate a livello regionale, c’è la chiave per evitare la perdita dei coralli nel mar dei Caraibi.
Il ripopolamento dei pesci pappagallo e un miglioramento in altre strategie di gestione, come vietare la pesca subacquea, la pesca a trappola, un maggior controllo nello sfruttamento delle coste per scopi turistici sarebbero dunque i rimedi più promettenti, prima che sia troppo tardi, per far sì che i coralli guariscano, tornino a vivere e diventino più resistenti anche ai futuri impatti con il cambiamento del clima, fenomeno comunque reale e in attesa di risposte – politiche ed economiche a livello globale– collegate a scelte nell’ambito di uno sviluppo sostenibile. E’ molto ottimista, forse troppo, il dottor Jackson per il quale “il destino dei coralli dei Caraibi non è ancora fuori del nostro controllo, se si adottano subito le giuste strategie”.