La Macedonia dichiara lo stato d’emergenza e carica i migranti con granate stordenti e lacrimogeni. Quando una crisi umanitaria si trasforma in un problema di ordine pubblico
di Carlo Perigli
Granate assordanti e gas lacrimogeni, gli ultimi rimedi trovati dalle forze di sicurezza macedoni per impedire a migliaia di migranti – perlopiù afghani e siriani in fuga dai conflitti in corso nei loro paesi – di entrare nel paese attraverso il confine greco. Così, ad un giorno dalla dichiarazione dello “stato d’emergenza”, Skopje decide di usare il pugno duro, e poco importa se in quella massa di diseredati ci siano anche donne e bambini. La “difesa dei confini”, anche qualora non si faccia parte della “fortezza Europa”, è ormai diventato un bisogno primario, sul cui altare del quale anche i più elementari diritti umani diventano sacrificabili.
Sono circa 3mila i migranti ammassati da giorni al confine sud della Macedonia, in quei varchi che in passato hanno rappresentato uno dei corridoi principali per i migranti provenienti dal Medio Oriente, con la ferrovia come strada da seguire. A piedi sui binari, con tutti i pericoli che ne derivano, ma quando hai poca scelta il resto diventa secondario.
Ora nella città di Gevgelija è stato schierato l’esercito, mentre la ferrovia è stata circondata da filo stimato. I migranti, reduci da una notte al freddo in un campo senza cibo e con poca acqua, stamattina sono stati vittime delle cariche da parte dell’esercito. Otto le persone ferite, una delle quali colpita da un frammento di una bomba assordante lanciata contro la folla, non certo l’unica. Misure introdotte “per la sicurezza dei cittadini che vivono nelle aree di confine e per un migliore trattamento dei migranti“, come il portavoce della polizia macedone Ivo Kotevski ha definito l’ampliamento delle misure di sicurezza da parte dell’esercito. Quando le parole perdono di significato.
“Non so perchè ci stanno facendo questo – ha dichiarato al Guardian Mohammad Wahid, iracheno – Non ho passaporto nè carta d’identità. Non posso tornare indietro e non ho un posto dove andare. Starò qui fino alla fine“. Come lui tanti altri, per i quali Grecia e Macedonia, entrambe caratterizzate da una situazione economica fortemente precaria – sono solo punti di passaggio nel loro viaggio verso l’Europa settentrionale e occidentale. Quelli che, riportando le dichiarazioni di Jasmin Redzepi, attivista di Legis, hanno spinto affinchè Skopje dichiarasse lo stato d’emergenza, quell’etichetta perversa che trasforma una crisi umanitaria in un problema di ordine pubblico, e che con le soluzioni che questo offre punta a difendere, anche fuori dai propri confini, la sacralità della “fortezza Europa”, costi quel che costi.