L’Europa si accorda con Erdoğan per contrastare i flussi di migranti, la Russia lo accusa di fare affari con l’Isis e la Grecia chiede aiuto alla Turchia per il “problema dei profughi”
di Giampaolo Martinotti
Mentre le dichiarazioni del ministero della Difesa russo scuotono il presidente turco Erdoğan, l’Europa alcuni giorni fa ha deciso di finanziare con una prima tranche di 3 miliardi di euro un progetto che a tutti gli effetti renderebbe la Turchia la più grande prigione a cielo aperto per migranti. L’Unione europea ha deciso di affrontare un fenomeno strutturale come quello delle migrazioni, e la profonda emergenza umanitaria che ne consegue, non solo con l’impiego della polizia, la costruzione di barriere o l’utilizzo di filo spinato, ma bensì servendosi direttamente di un regime autoritario e repressivo alle sue propaggini più orientali.
Il ruolo di Ankara dunque diventa sempre più essenziale nelle dinamiche geopolitiche mediorietali e per la “salvaguardia” dei confini europei, messi sotto pressione da un crescente flusso di esseri umani in fuga da conflitti, e povertà, dei quali proprio l’Europa è storicamente responsabile. L’ottusità dei leader europei è a dir poco inverosimile: la brutale censura mediatica, le aggressioni ai danni della popolazione civile, la guerra perpetrata contro il popolo curdo, la connivenza con i terroristi dell’Isis, gli omicidi di stato, il trattamento disumano nei confronti dei migranti, le ripetute violazioni dei diritti umani, la persecuzione dell’opposizione politica filo-curda e la repressione feroce di ogni tipo di dissenso non sono motivi sufficienti per interrompere immediatamente le relazioni diplomatiche con il regime di Recep Tayyip Erdoğan, anzi.
Allo stesso tempo, Grecia e Turchia stanno studiando un piano di cooperazione per far fronte agli arrivi che in gran parte si concentrano verso le isole greche. Nell’ultimo anno infatti più di 500mila persone sono riuscite a raggiungere il paese ellenico, molte delle quali passando proprio per la Turchia. Alexis Tsipras in questo frangente ha certamente ereditato le inefficenze causate dall’inettitudine dei governi che lo hanno preceduto, ma l’accoglienza violenta riservata alle centinaia di profughi, principalmente siriani e afgani, dalle autorità dell’isola di Kos non è un bel precedente. Mentre uomini, donne e bambini disperati venivano letteralmente aggrediti dalla polizia e intossicati con i lacrimogeni prima di essere radunati nel piccolo stadio locale per essere registrati, facendo ritornare in mente le tristi immagini del Cile alla fine del 1976, l’indifferenza del governo di Atene andava nella folle direzione intrapresa dall’Europa “fortezza” per la quale i confini, le coste e le lotte sociali devono essere unicamente militarizzate.
Dal punto di vista prettamente economico è certamente comprensibile che un paese come la Grecia, distrutto dalla crisi finanziaria delle banche e dalla creditocrazia che lo attanaglia, da solo non sia in grado di fornire acqua, medicinali e tutto il sostegno necessario per un numero di migranti in costante aumento. Ma come è possibile che centinaia di persone siano bloccate al confine fra Grecia e Macedonia in quella che viene definita “terra di nessuno”, e invece di ricevere assistenza vedano piovere sulle proprie teste gas lacrimogeni e manganellate perché sprovvisti di un passaporto siriano, iracheno o afgano? Quanti “Aylan” dovremmo ancora vedere morti sulle nostre spiagge prima di opporci alla barbarie dei governi europei?
Forse ha proprio ragione il presidente francese François Hollande, indifferente alla crisi umanitaria di Calais: oggi l’Europa è davvero in guerra; sì, ma contro i migranti, lo stato di diritto e i suoi stessi cittadini.