Una vita partita in svantaggio quella di Ian Wright, vissuta con la rabbia di chi vuole la rivincita. Poi quel cartellino, i festeggiamenti e le lacrime
di Carlo Perigli
Nel giro di un attimo, la sera del 12 aprile 1994 il mondo gli è completamente franato addosso. Quel cartellino giallo, mostratogli dall’arbitro senza troppi complimenti, rappresenta la sentenza definitiva: Ian Wright non giocherà l’eventuale finale di Coppa delle Coppe contro il Parma. Mani in testa e corpo piegato sulle ginocchia, l’attaccante inglese non regge il colpo, e qualche lacrima gli scorre timidamente sul viso. Provocato per tutto il primo tempo, alla fine ha reagito. Il fallo c’è, il giallo pure, ma i difensori del Paris Saint-Germain lo sapevano, conoscevano i lati deboli del suo carattere e l’hanno provocato. E ci sono riusciti. Il pubblico d’oltremanica non capisce, pensa alla solita scenata della primadonna che non accetta la sacrosanta decisione dell’arbitro. Ma che ne sanno loro cosa significhi veramente essere Ian Wright?
Quel banale cartellino si infrange su un sogno inseguito nei sobborghi di Woolwich, sud-est di Londra, per tanti, troppi anni. Un sogno che coltivava per evadere da una realtà caratterizzata da una forte precarietà economica, con un padre chissà dove, una madre con problemi d’alcolismo e un patrigno che non si era mai interessato ad instaurare un rapporto con lui. Per restare a galla Ian si affida a tre appigli: Patrick, suo cugino, con il quale cresce spalla a spalla, Mr. Pidgen, il suo professore, che gli insegna a leggere, scrivere, e sopratutto a credere nelle sue qualità, e poi c’è lei, la sfera di cuoio, l’unico vero sogno in grado di dare a Ian Wright la speranza di un futuro migliore.
Ci prova Ian, giorno dopo giorno. Tra un lavoro da muratore e uno da imbianchino, passa l’adolescenza a cercare di entrare nel mondo del calcio professionistico. I rifiuti però arrivano veloci, talmente numerosi da non poterli neanche più contare. Le delusioni scottano, quel riscatto sociale tanto agognato stenta ad arrivare, e Ian decide di lasciar perdere. Qualche giorno di prigione per una multa non pagata, e quando esce inizia una nuova vita. Trova lavoro in una ditta del Comune e adotta il piccolo Shaun, due anni, figlio della compagna. Qualora ve lo stiate chiedendo, si, di cognome il bambino fa Wright-Phillips. Ormai, Ian Wright con il calcio professionistico ha chiuso. Che sia un hobby allora, giusto per fare un po’ di sport e passare in compagnia il tempo libero.
C’è mancato poco, veramente poco, e non avremmo potuto godere delle prodezze di Ian Wright. Impensabile. Per fortuna che esiste Steve Coppell, all’epoca allenatore del Crystal Palace, che nel 1991 chiama l’ormai rassegnato operaio inglese per un provino di un mese. Sarebbe bello, ma la famiglia, i figli, il lavoro; grazie mister, ma non si può. Coppell rilancia, crede in Ian e gli farà indossare la maglia dei Glaziers. Tre mesi, cento sterline a settimana, poi si vedrà. Affare fatto Ian, ora sei un calciatore professionista.
Il giorno della firma Ian Wright aveva 22 anni, un’età in cui gli altri calciatori hanno già una piccola esperienza alle spalle. Qualcuno è uscito dalla prestigiosa accademia di qualche grande club, altri hanno fatto la gavetta scalando le divisioni inferiori. Lui è l’eccezione, fino al giorno prima giocava come semi-professionista mentre scavava tunnel per il Municipio di Greenwich. Nel calcio che conta ci è arrivato da solo, pronto a riprendersi con gli interessi quello che le innumerevoli porte in faccia gli avevano tolto. «Ho tratto forza e desiderio dall’essere arrivato a questo punto più tardi del solito. Tutte le persone che mi hanno rifiutato quando ero più giovane devono guardarmi e capire che avevano torto. Ecco cos’è che ti sprona quando inizi a fare bene».
In pochi anni Ian Wright divora il tempo e il campo. Da perfetto sconosciuto si trasforma in attaccante implacabile, e nel 1991 arriva il grande salto: la firma sul contratto che lo lega all’Arsenal. L’amicizia con il compianto David Rocastle, la numero 8, e ancora gol, tanti, pesanti, bellissimi, che imprimono il suo nome su una Fa Cup e una Coppa di Lega. Rabbia e voglia di rivalsa, caratteristiche che Ian non ha mai abbandonato, che lo hanno guidato nella sua carriera, ponendolo sotto i riflettori e riservandogli anche diverse antipatie. «Fuori dal campo Ian era una persona adorabile – dichiarò in un’intervista Andres Limpar, suo ex compagno di squadra all’Arsenal – ma una volta dentro poteva diventare un’animale. Il suo linguaggio era terribile. Così tanta rabbia e tanta fame, era come un uomo posseduto alla ricerca del gol». Addetti ai lavori, tifosi avversari, parte della stampa, in tanti non gradiscono i suoi modi da «villain», e, a dirla tutta, a qualcuno non piace neanche il colore della pelle, né tantomeno quel suo ammirare Martin Luther King e Malcolm X. Gli insulti razzisti dell’allora proprietario del Crystal Palace, Ron Noades, gli sputi ricevuti nella trasferta di Oldham con la maglia dell’Arsenal, episodi che si legano in un’unica narrazione con la sua infanzia, con i momenti difficili, le sofferenze, dandogli una carica ancora maggiore per andare avanti e dimostrare il suo valore.
Ecco perchè nel secondo tempo di quell’Arsenal-Paris Saint-Germain Ian Wright rientra in campo come se nulla fosse, e con la solita grinta gioca la sua partita fino al 90′, con i Gunners che guadagnano la tanto agognata finale. Nonostante insegua il sogno di una finale europea da una vita, nonostante a 31 anni sia perfettamente consapevole che potrebbero non esserci altre occasioni. A fine partita, alcuni tifosi racconteranno di averlo visto nello spogliatoio , intento ad “annaffiare” i compagni con lo champagne, a scherzare con Paul Meron, a trascinare lo spogliatoio intonando “One-nil to the Arsenal“. Irriverente, sincero, genuino, Ian fu l’anima della festa, come sempre. Solamente alla fine, quando ormai tutti erano andati via, Tony Adams, storico capitano dai Gunners si avvicinò e lo strinse in un abbraccio. Ed entrambi scoppiarono a piangere.