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Marcos e narcos, per il Tg1 pari sono

Il Tg1 equipara il boss El Chapo al subcomandante Marcos. Cialtroneria, superficialità o precisa posizione politica? Anche la disinformazione è un crimine quando la fa il servizio pubblico

di Enrico Baldin

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Tziana Ferrario, autrice del servizio del Tg1 che ha inserito il subcomandante Marcos nell’elenco dei grandi criminali che hanno rilasciato interviste

A voler essere magnanimi la si potrebbe definire una uscita infelice. Ma di uscita infelice scriveremmo se non si trattasse invece di un mix di faciloneria, imprecisione e faziosità. Stiamo parlando di un servizio andato in onda sul Tg1 di lunedì sera nell’edizione delle ore 20.00, ed in particolare di un passaggio che tira in ballo (incomprensibilmente) uno dei riferimenti politici e culturali della sinistra di tutto il mondo, il subcomandante Marcos.

Verso fine telegiornale la giornalista Tiziana Ferrario dava conto delle ultime notizie in merito alla cattura del boss messicano del narcotraffico Joaquin Guzman detto “El Chapo” e delle polemiche conseguite all’intervista che il bandito ha concesso al famoso attore Sean Penn attraverso l’intermediazione della giovane attrice Kate De Castillo. La contestata intervista al narcotrafficante è uscita questi giorni nel numero di gennaio del magazine “Rolling Stone” e Sean Penn è finito sulla graticola.

In particolare nel servizio della Ferrario viene ricordato che non è la prima volta che un criminale rilascia una intervista in esclusiva da un covo segreto e sconosciuto alle autorità di polizia. L’inviata del Tg1 da New York fa una rapido excursus di interviste celebri svolte a banditi e criminali, raggiunti nei loro nascondigli dagli intervistatori. Tra le “celebrità criminali” intervistate, il servizio della Ferrario cita il terrorista saudita Osama Bin Laden fondatore di Al Qaida incontrato nelle montagne dell’Afghanistan da un giornalista della CNN. Poi l’intervista al narcotrafficante colombiano Pablo Escobar che fece ammazzare decine e decine di persone controllando l’80% del traffico di cocaina nel mondo, ed il reportage fatto al bandito siciliano Salvatore Giuliano, responsabile fra le altre della strage di Portella della Ginestra. E l’intervista di Gianni Minà al subcomandante Marcos. Sì, proprio il subcomandante Marcos, considerato dal servizio del Tg1 un bandito alla stregua di Bin Laden, di “El Chapo” e degli altri. Non bastasse, il servizio “precisa” che l’intervista fatta da Minà al portavoce zapatista si è svolta «sulle montagne del Chiapas».

Era il marzo del 2001 e Gianni Minà, come altri giornalisti e scrittori europei e non, seguiva l’evoluzione del clima politico messicano. Erano passati sette anni da quel primo gennaio 1994 in cui l’EZLN diede un segnale al mondo occupando i municipi di alcune città dello Stato del Chiapas a sudest del Messico. Da quel giorno tra gli zapatisti ed il governo del Messico, iniziò una vera e propria trattativa. Gli indigeni abitanti le terre del Chiapas chiesero null’altro che un “degno vivere”, il governo voleva continuare a svendere senza alcun controllo alle multinazionali le risorse del sottosuolo messicano. Le armi tacquero e con la mediazione della diocesi di San Cristobal si giunse agli accordi di San Andres che impegnavano il governo a recepire alcune richieste dell’EZLN.

Per gli zapatisti di lì in poi sarà una continua e pacifica battaglia per far rispettare i trattati spesso disattesi dal governo del Chiapas, per una vita “degna”, per la salute, l’istruzione, per il pane, per un mondo di pace e senza ingiustizie. Nel marzo 2001, quando Minà intervistò il subcomandante Marcos, questi non era un terrorista che dirottava aerei, non era un narcotrafficante, non era un boss della malavita. Era un rivoluzionario. Era un interlocutore politico che non aveva bisogno di nascondersi, anzi: proprio in quei giorni si chiudeva a Città del Messico la marcia zapatista che aveva attraversato 12 stati e che chiedeva fossero recepite in Costituzione le clausole di autonomia volute dagli zapatisti e previste dalla ley Cocopa. Marcos parlò da un palco a Città del Messico davanti a 250mila persone, e a conferma del carattere della manifestazione ostentava le rotonde pagnotte di pane impresse al petto al posto di medaglie ed effigi dorate solitamente impresse nelle divise dei comandanti di esercito. Alla folla davanti a sé affermò «Aquì estamos». Siamo qui. Un segnale a chi avrebbe preferito non dover prendere in considerazione le istanze zapatiste. Un segnale a chi – povero, abbandonato, senza diritti – aveva bisogno di una speranza, di poter guardare ad un futuro diverso.

Una delegazione di zapatisti venne ricevuta in Parlamento e solo due giorni dopo Marcos colloquiò con Gianni Minà e con Manuel Vasquez Montalban. Non in un nascondiglio, non in qualche caverna delle montagne del Chiapas, ma nella facoltà di antropologia dell’università di Città del Messico. Ne uscì un bel servizio ed un documentario, tra i più memorabili della carriera di Minà.

E non fu di certo l’unica intervista che concesse il sup che in quei giorni incontrò giornalisti e inviati da tutto il mondo. Li incontrò semplicemente alla luce del sole. Alla luce del sole come le lotte degli indigeni eredi della tradizione maya. Alla luce del sole come l’infausta idiozia della menzione di Marcos a fianco ai nomi di Bin Laden e “El Chapo”.

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