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La notte in cui parlai con Sekularac

Un incontro inaspettato e surreale, tra una notte italiana e una fredda mattina belgradese, circondato dalla bellezza del parco Tasmajdan

di Carlo Perigli


sekularacStanotte ho parlato con Sekularac. L’ho incontrato per caso, in una fredda mattina belgradese, nel cuore del parco Tasmajdan. Non c’è da stupirsi, ci sono stati anni in cui era solito trovarsi là. Calcio d’estate e hockey d’inverno, quando la capitale serba resta assopita per via della neve. La domanda, semmai, è cosa ci facessi io a Belgrado, a subire il vento sferzante che senza sosta percorre le strette vie che da Trg Republike portano alla Chiesa di San Marco. Probabilmente chi vive qui non se ne accorge, ma il freddo belgradese ti entra nelle ossa, un po’ come quella dolce malinconia che il cielo bianco sparge sulla città. Le ho provate entrambe tutte le volte che sono stato a Belgrado. Quattro in tutto, sempre lo stesso giorno, sempre negli stessi posti. Quest’anno no, quest’anno ho deciso di non partire. Ho pensato che altrimenti rischierebbe di diventare un’abitudine, e la prima regola da rispettare quando tieni a qualcosa è fare in modo che non lo diventi. Mai.

Eppure sono qui. Per l’ennesima volta alzo lo sguardo dalla Chiesa di San Marco e vedo il parco Tasmajdan, posto su una piccola collinetta che si affaccia di fronte alla sede della Radio Tv Serba. Te la ritrovi davanti all’improvviso mentre percorri il vialetto che costeggia il parco, e il magone sale inevitabile. L’edificio, dopo i bombardamenti Nato del 1999, è stato quasi totalmente ricostruito. Una parte no, hanno voluto lasciarla così, con la facciata sventrata e gli interni ridotti ad un cumulo di macerie e calcinacci. Un missile, ventidue morti, giovani stagisti i cui nomi sono incisi su una lapide poco distante. Dicono che la guerra sia diventata umanitaria. A me non sembra.

Rifletto, distolgo lo sguardo e proseguo la mia passeggiata nel parco. Stranamente è quasi deserto, se non fosse per un piccolo capannello di persone riunite poco più giù. Mi avvicino, sembrano quasi ipnotizzate, la loro attenzione è totalmente catturata dalle peripezie che un uomo in giacca e cravatta sta eseguendo con un  pallone. Lo guardano estasiati, mentre lui si diverte a stupire il suo pubblico una volta e un’altra ancora. Colpi di tacco, di suola, poi un tocco improvviso alza il pallone sulla testa. Lo controlla, lo fa danzare sulla fronte, e ancora giù, sul petto e di nuovo sui piedi, mentre il folto pubblico applaude entusiasta. Mi fermo a guardarlo. Mi sembra di conoscerlo, la sua vista mi emoziona, eppure non riesco a mettere a fuoco quell’elegante e magnetica figura.

sekularac«Lo so italiano – mi dice senza distogliere l’attenzione dalla sua preziosa opera – non riesci a riconoscermi vero? È strano, forse paradossale, ma ormai ci sono abituato. Dalle tue parti, oltre l’Adriatico, in pochi si ricordano di me». Continuo a guardarlo, e un nome inizia a farsi spazio con prepotenza nella testa. Ho visto qualche sua foto in bianco e nero, qualche filmato di repertorio nei quali appare proprio come ce l’ho di fronte in questo momento. Mi sembra assurdo, ed effettivamente lo è, ma sto ammirando la classe di Dragoslav “Seki” Sekularac, il re del dribbling, la seconda “zvedzina zvezda – stella della Stella Rossa”, un’onorificenza riservata fino ad ora ai cinque giocatori più rappresentativi della storia del club serbo. Se l’è meritata grazie a undici anni entusiasmanti, dal 1955 al 1966, cinque scudetti, tre coppe nazionali e una Coppa Mitropa. Ma il suo fiore all’occhiello, lo sa anche lui, è il Mondiale cileno del 1962, per il quale perfino Pelè lo definì il miglior giocatore del pianeta, confermando quell’insolito e innaturale 11/10 attribuitogli da France Football. Penso che con le qualità che aveva, oggi avrebbe potuto vantare una carriera molto più ricca, forse limitata da quell’ossessione per il dribbling che in qualche modo lo costringeva ad inventare sempre una giocata diversa.

«Forse hai ragione, sai? – mi confessa sorridendo – Ma saltare l’uomo è stata la sensazione più bella mai ricevuta dal calcio. Mi piaceva stupire il pubblico, sentirlo vibrare. Ricordo ancora le mie prime partite, esordii insieme ad altri ragazzi delle giovanili mentre la prima squadra era in tour negli Stati Uniti. In poco tempo si sparse la voce, tutta la città parlava di quel ragazzino che faceva impazzire gli avversari. La prima volta mi esibii davanti a duemila persone. La settimana dopo erano cinquemila, diecimila alla terza partita. Alla fine venne anche mio padre. Non voleva che giocassi a calcio, mi avrebbe voluto vedere studiare. Venne con alcuni suoi amici in una partita disputata con la Nazionale. Mi viene ancora da ridere, di calcio non sapeva nulla, gli dovettero spiegare ogni singola regola passo dopo passo. A fine partita, quando tornai a casa, mi aspettavo un suo giudizio, ma mi fece solamente una domanda: “Perché dribbli così tanto?” Non so se fosse un complimento, ma è stata la frase più bella che potesse dirmi».

sekularacMentre lo ascolto continuo a guardarlo, inizio ad inquadrare il personaggio che ho di fronte. Capisco che probabilmente la soddisfazione di cui parla non è nel dribbling in sé, ma nelle emozioni che questo suscita nel pubblico. Gli piace essere apprezzato, sentirsi gli occhi addosso, essere sulla bocca di tutti. «Si, è proprio così – annuisce sorridendo – in fondo sono un egocentrico, ma non ho mai fatto del male a nessuno. Ogni volta, a fine partita, andavo in qualche taverna. Arrivavo con la mia vespa, la parcheggiavo fuori ed entravo. Ma non per bere, non ho mai bevuto in vita mia, era solo un modo per farmi notare. Quando uscivo c’era più gente intorno alla vespa di Sekularac che davanti ai botteghini del Marakana. E si, lo ammetto, ho fatto anche cose stupide, come pulirmi le scarpe con delle banconote. Se ne parlava molto, anche se nessuno sa che poi le rimettevo nel portafogli, non ero mica scemo».

Il suo racconto mi convince soltanto in parte. Per quel poco che so di lui, la fama di grande bevitore e giocatore “bohemien” è sempre andata di pari passo con le sue imprese in campo. «Cattiverie, soltanto cattiverie – mi ammonisce con lo sguardo amareggiato – ho la fama di alcolizzato che mi insegue da quarant’anni, eppure, te l’ho detto, l’alcool non è mai stato tra le mie passioni. La voce iniziò a girare già quando giocavo e non ha smesso di perseguitarmi nemmeno quando ho iniziato ad allenare. Tu pensa che nel periodo delle sanzioni, all’inizio degli anni 90, l’Apoel Nicosia mi offrì 300.000 marchi a stagione. Sai quanti erano 300.000 marchi, con tutto quello che stavamo passando? Ma l’affare improvvisamente saltò. Qualcuno li avvertì che stavano per assumere un alcolizzato, e così ritirarono l’offerta.  Le voci corrono, a volte mi stupisco di quanto possano arrivare lontano. Ti racconto questa: quando allenavo a Toronto, una volta un uomo mi si avvicinò in un bar. “Pensa, mi disse, abbiamo speso 18.000 dollari per quel Sekularac, e lui li ha spesi tutti in alcool e scommesse”. Lo guardai incredulo, così gli chiesi se conoscesse Sekularac, e quel tale tutto sicuro mi disse che erano amici, che lo frequentava tutti i giorni. Penso che chi era in quel bar non si dimenticherà mai la faccia di quell’uomo quando scoprì che in realtà Sekularac era proprio di fronte a lui».

Continuo ad ascoltarlo. È la sua versione dei fatti, e non ho motivi per non credergli, ma contraddice tutto quello che ho letto in giro su di lui. Però di una cosa sono certo, a Sekularac non sono mai stati riconosciuti i giusti meriti per quanto fatto da allenatore della Stella Rossa. «Esatto! – interrompe bruscamente quello che per l’ennesima volta pensavo fosse solo un mio pensiero – mettici anche questo nel conto.Dalle tue parti la Stella Rossa campione d’Europa è legata al nome di Petrovic, ma chi ha costruito la squadra? Sekularac! Fui io, l’allenatore della stagione precedente, a decidere di basare la campagna acquisti sui giovanti talenti jugoslavi, a formare l’ossatura, a vincere Campionato e Coppa di Jugoslavia. E pensa, non mi hanno nemmeno chiamato per festeggiare insieme i quindici anni di quel trionfo epocale! Ma non mi stupisco, tutto iniziò con la cessione di Stojkovic al Marsiglia. Dzajic e  Cvetkovic volevano venderlo per fare cassa per il club e – mi bisbiglia – non solo, mentre io non capivo. Stavamo creando una squadra fortissima, perché dovevamo vendere il nostro miglior giocatore? La verità è che quella squadra la formammo io, Slijepcevic e Otasevic. Ma chi si ricorda di noi

sekularacLe sue parole mi lasciano senza possibilità di replica. Non faccio in tempo neanche a pensare che ormai Sekularac è diventato un fiume in piena. «Io di stupidaggini ne ho fatte tante, ma quasi tutte in campo. Troppe reazioni fuori luogo, troppe espulsioni. Ma, devo ammetterlo, non ho mai avuto un carattere facile. Ora che riesco quasi a contare i giorni che mi rimangono, frotte di giornalisti mi chiamano ogni settimana, tutti si aspettano da me qualche ripensamento, qualche mea culpa. Ma per cosa? Forse per essere stato sempre me stesso, per aver preferito il divertimento del pubblico all’ipocrisia delle alte sfere? Ma che gusto c’è ad avere talento se poi lo tieni per te? Volevo divertirmi e far divertire, amare ed essere amato, ridere e scherzare, perché è tutto ciò che conta. E laddove ho sbagliato, te lo dico in tutta sincerità, non ho fatto altro che dimostrare di essere un semplice essere umano. Sai che ti dico alla fine: se dovessi rinascere non cambierei nulla, vorrei vivere di nuovo la vita di Dragoslav Sekularac».

L’ultima frase mi rimbomba in testa, mentre la sua voce si interrompe, e con lei anche lo spettacolo circense. Non vedo più ne Seki né il parco Tasmajdan. Mi sento vagamente intontito, preparo il caffè e accendo il computer. Non crederete mai a quello che sto per raccontarvi…

Tratto da La notte in cui parlai con Sekularac
www.storiedelboskov.it

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