Una nuova stagione è cominciata a Cuba, ma porta pioggia e domani tempesta
di Maurizio Zuccari
La primavera a Cuba è sbocciata sulle ali dell’Air force one in volo sull’Avana. Sulle vecchie automobili degli anni ‘50, risalenti a prima dell’embargo, ferme sulle strade coi cubani nasi all’insù, per la gioia dei fotografi, a vedere a vedere Barack Obama atterrare. Primo presidente statunitense a farlo, dopo sessant’anni di guerra calda e fredda fra il paese caraibico che osò importare il comunismo in America e la superpotenza che ha fatto di tutto, o quasi, per impedirlo. L’unico presidente Usa a visitare l’isola era stato Calvin Coolidge, a bordo di una corazzata, la Texas, e già questo la diceva lunga sulle ragioni di quella visita.
Era il 1928 e ad accoglierlo non c’erano balli di piazza, magliette e bandiere a stelle & strisce a sventolare sui palazzi, accanto a quella cubana con gli stessi colori e una sola stella, ma corazzieri a cavallo e una sfilza di pagliette chiare, la buona borghesia in affari col potente vicino. Quando Coolidge caracollava in tuba, un po’ impacciato fianco a Machado, dittatore che aveva fatto tabula rasa d’ogni dissidenza sull’isola ma sopravvisse un pugno d’anni a quella visita, Fidel Castro aveva poco più d’un anno e nulla ricorda. Come forse poco ricorderà ora, mummificato nel suo residence dopo essere sopravvissuto a dozzine di attentati dei vari agenti all’Avana, da parte degli Usa tornati amici. Yankee non più home, ma wellcome.
Se il lider maximo è il grande assente all’atterraggio dell’aereo presidenziale, più vistosa ancora è l’assenza del fratello Raul ai piedi della scaletta, sostituito dal ministro degli Esteri cubano. Una sgarberìa che, oltre a scatenare l’ironia di Trump via twitter, e le ire dei candidati repubblicani che contavano sul bacino dei voti dei fuorusciti cubani, i già trombati Rubio e Cruz, la dice lunga sulla distanza tra i due vicini e sui mutati rapporti di forza tra i due paesi. Almeno in apparenza. Più ancora la dice lunga l’Obama saltellante sotto larghi ombrelli neri tra le pozzanghere di plaza Colon, nella pioggia dell’infida primavera cubana, moglie e figlie a fianco, indistinguibili dalle belle figliole del luogo. Un’immagine iconica dello storico evento.
La visita, benedetta dal Vaticano e benvista da chiunque non abbia nostalgie d’antan in patria, nell’isola e nel mondo, oltre ad aperture diplomatiche e strette di mano ai dissidenti non darà molto, a breve. Nessuna tolleranza politica fuori dal consentito, per il regime cubano, anche se l’orologio della storia è suonato e farà cadere il castello castrista a suon di dollari, non più di bombe. Nessuna fine dell’embargo e restituzione di Guantanamo, per ora il congresso manco si sogna di votarle. Così il bel gesto di Obama rischia di restare tale, e i capitali Usa di cui l’isola ha bisogno chiusi nel cassetto delle belle speranze. Eppure la primavera è arrivata, a Cuba, anche se porta pioggia e domani, forse, tempesta.
Perché la grande isola, il partito unico alla guida del paese che seppe portare a dama la prima rivoluzione in quello che già ai primi dell’‘800 un tal James Monroe, quinto presidente Usa, ribattezzò il cortile di casa nella sua dottrina, rischia d’essere stritolato dalle carezze di Obama assai più che dagli schiaffi e dal muso duro dei suoi predecessori. Sulla platea mediatica, un meditabondo Raul mostrava d’avere chiara la minaccia, a fronte d’un sorridente Obama. Un ottuagenario e un cinquantenne, la strana coppia del Caribe. Il castrismo, come pressoché tutte le élite rivoluzionarie, non si è mostrato capace di rinnovarsi, se non per via del fratello oscuro e minore del lider che ha avuto la ventura di stringere la mano al nuovo soft power Usa. Velluto troppo sottile per non mostrare il guanto che cela.
La rivoluzione cubana, orgogliosissima d’essere sopravvissuta a un aborto d’invasione che ebbe la sua parte nel decidere il destino di John Kennedy, oltre che all’embargo più lungo della storia e al tracollo del grande protettore, l’Urss, per sopravvivere dovrà inocularsi nelle vene sclerotiche dosi massicce del virus che il nemico di ieri spargerà a piene mani, il denaro. La logica del profitto e la voglia di consumo verso i quali i cubani non possiedono alcun antidoto, tranne la storia recente. Ma la storia tutto è fuorché maestra di vita. Non salva dal futuro. E questo nessuno può imbrigliarlo, tantomeno un partito sempre meno capace d’essere padre e padrone. Giorno verrà in cui il socialismo caraibico sarà forse solo un ricordo, con le sue lusinghe e le sue storture, e questo giorno è iniziato ieri. Il nuovo giorno decantato da Obama. Speriamo solo che, se e quando sarà, non sia il sangue a scorrere, ma solo bollicine di cocacola.