Rispondendo all’hastag #MenInHijab lanciato dalla giornalista Masih Alineajad, centinaia di iraniani si postano in rete col velo per rivendicare una società libera da ingiustizie legalizzate
di Marina Zenobio
Secondo stime del governo iraniano, solo l’anno scorso circa 3,6 milioni di donne sono state ammonite, multate o arrestate per non indossare correttamente il velo. Con un ritardo di 36 anni, ora gli uomini iraniani guardano alla lotta delle donne contro l’imposizione di indossare indumenti imposti da quella teocrazia islamica che si installò sui resti della fallita rivoluzione del 1979.
Dopo il successo della campagna social “La mia libertà sigillata”, lanciata nel 2004 e che invitava le donne a togliersi il velo, la giornalista iraniana Masih Alineajad (nella foto) residente negli Stati Uniti, ne lancia un’altra con l’hastag #MenInHijab (uomini velati) per chiedere loro di mostrare solidarietà alle donne pubblicando le proprie foto con la testa coperta da un velo, in nome di una società libera da costrizioni, crudeltà e ingiustizie legalizzate.
L’importanza di questa campagna sta nel fatto che nella cultura patriarcale, non solo di questa regione del mondo, far indossare ad un uomo indumenti femminili è una punizione tra le più umilianti. Questa è la seconda volta che gli uomini iraniani rompono il tabù, la prima è stata nel 2009 in solidarietà con lo studente universitario Majid Tavakoli (nella foto della Fars New Agency).
Arrestato per aver pronunciato un discorso in favore delle libertà, il giovane Takavoli fu costretto ad indossare il velo e la sua foto pubblicata, come estrema umiliazione, su tutta la stampa ufficiale.
Quel giorno centinaia di ragazzi per protesta indossarono il velo.
Quel velo che nasconde l’apartheid di genere
Nel 1935 l’Iran fu il primo paese del mondo islamico a proibire il velo; come fu anche il primo, nel 1964, a nominare una donna, Farrojru Parsa, come ministra e, nel 1976, primo a creare il Ministero degli Affari Femminili. E’ a partire dal 1980 che la teocrazia islamica è tornata ad imporre leggi per ricreare la società guidata da Maometto nel VII Secolo e, a tal fine, ha instaurato un sistema di apartheid di genere in Iran dove il velo è solo la sua parte più visibile, stabilisce una netta separazione tra le modalità di vestirsi tra femmine e maschi direttamente in relazione con i ruoli assegnati ai rispettivi generi: gli uomini, portando i pantaloni, ostenteranno potere e la donna, col velo e gonne lunghe, sarà la sposa e la madre dei figli di lui. Successivamente sono stati ampliati i diritti sessuali degli uomini riducendo l’età per il matrimonio delle donne da 18 a 8 anni (a 8 anni da noi è pedofilia!), estende la poligamia e il matrimonio provvisorio mentre si applica la “pedagogia del terrore” con leggi semitiche del taglione e della lapidazione. Alla donna è proibito amare, ballare, cantare, ridere, viaggiare senza un uomo o alloggiare in un hotel. Le “differenze biologiche” giustificano la sua “inferiorità”.
Chiaramente le donne del veterano movimento femminista iraniano, che a Teheran nel marzo del 1980 organizzarono la grande manifestazione delle 200mila contro l’imposizione del velo, dopo una dura repressione optarono per più sottili forme di disobbedienza civile che ha attraversato diverse fasi: dallo scontro diretto con la “polizia della morale”, che comportava prigione e punizioni, al rifiutarsi di mettersi quel lenzuolo nero che ricopre tutto il corpo e che si chiama chador per trasformarlo in gabardine con fazzoletto negli anni ’80. Nella seconda fase iniziarono a colorare le “uniformi” che per legge dovevano essere nere (per non eccitare nessuno), e inventarono la sofisticata “moda islamica” e il femminismo islamico. Successivamente iniziarono ad indossare il “mal velo”, che consiste nel collocare in testa piccoli e leggerissimi foulard con delle eleganti frange. Ora è iniziato lo “svelamento” della testa e sono sempre di più le donne sovversive che sfidano per le strade del paese le “pattuglie della morale”.
Il significato del velo
Anche se nacque per adattare gli esseri umani a certi habitat, presto il velo si riempì di sfumature per segnalare lo stato sociale, il gruppo etnico o religioso. In Persia e Babilonia gli aristocratici si coprivano in pubblico con del prezioso tulle per mostrare la propria classe sociale. Il Corano chiede che le credenti si distinguano coprendosi “per non essere riconosciute e molestate” (versetto 33:59). Tra i semiti, la folta chioma di Lilith, la donna nuda e sottomessa e, quindi, la prostituta, era il simbolo della sessualità disinibita. Alle schiave e alle adultere era proibito il velo ma la testa veniva loro rasata perché più si esibiva la capigliatura meno si era caste. Secondo questa sentenza manichea i desnudi abitanti dell’Amazzonia dovrebbero meritare il castigo divino, e i copertissimi esquimesi che abitano la Groenlandia dovrebbero avere il primo posto in paradiso.
Mentre La Bibbia esige che la donna porti un “segno dell’autorità dell’uomo sulla sua testa” (Corinzi, 11), Il Corano svincola il velo dalla fede della donna ma lo mette in relazione con la sua fertilità: può non indossarlo più quando arriva la menopausa (Corano: 24, 59), ma dovrà sempre tenere ben coperto il collo perché la scollatura è responsabile dell’incontinenza sessuale dell’uomo (Corano: 24, 31).
Si equipara la nudità della donna con un suo essere oggetto sessuale. Ma cosa sono allora le donne velate che, senza conoscere il proprio pretendente, ne diventano spose? Lui non conosce le inquietudini, i gusti, i sogni e i desideri di quella donna, ma vede nel suo velo una garanzia di fedeltà sessuale, e ciò gli basta per metter su famiglia.