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Referendum e carte truccate

La Corte Costituzionale non è neutrale è un organo dello Stato borghese, per questo ha bocciato il referendum sull’articolo 18 disinnescando la fiacca strategia della Cgil contro il jobs act

di Antonio Moscato

articolo-18

Non sarebbe stata una sorpresa, il voto della Corte Costituzionale che dichiara improponibile il referendum più importante e comprensibile tra quelli proposti dalla CGIL , quello sull’articolo 18, se ci si fosse ricordati che anche la Corte Costituzionale è un organo dello Stato borghese, che non è mai stato neutrale. È vero che questa sentenza appare in contraddizione con una decisione precedente che aveva ammesso nel gennaio 2003 un referendum che prevedeva un’analoga estensione dell’articolo 18 anche alle aziende tra 5 e 15 dipendenti. Ma questo è spiegabilissimo. La Corte, come tutti i livelli superiori della magistratura, non vive nell’iperuranio, ed è sensibile a pressioni dirette e indirette di ogni genere. Non vale la pena di fare dietrologia. Nel 2003 le classi dominanti non avevano paura di un referendum proposto da forze politiche che rappresentavano poco più del 5% dei voti, e che era osteggiato dai due maggiori sindacati padronali e da gran parte della CGIL (con l’eccezione della FIOM). Tra coloro che si erano spesi allora per evitare il referendum c’erano il segretario generale della CGIL Guglielmo Epifani, il suo predecessore Sergio Cofferati, personalità del centrosinistra come Francesco Rutelli, Franco Marini, Luciano Violante, Tiziano Treu, e perfino l’immarcescibile leader di una finta opposizione in CGIL Giampaolo Patta, tutti favorevoli a boicottare il referendum sperando in una ipotetica legge che ottenesse lo stesso risultato. E che ovviamente è rimasta nel libro dei sogni, mentre smantellando questa o quella norma si continuava a scivolare verso l’infame Jobs Act.

Altra cosa è l’irresponsabilità della reazione di Bertinotti e della maggior parte del gruppo dirigente del PRC di fronte al risultato: invece di valutare come un successo che indicava la strada da seguire un risultato di dieci milioni e mezzo di voti, ottenuto da una forza che ne aveva avuti solo 1.700.000 nelle ultime elezioni politiche e che si era impegnata solo in piccola parte nella campagna referendaria, si lanciarono nell’avventura insensata della partecipazione a un governo pieno zeppo di esponenti del padronato, a partire da Romano Prodi.

D’altra parte, per evitare rischi, già nel 2003 la Corte aveva rifiutato un altro quesito che prevedeva l’estensione dei diritti sindacali agli stessi lavoratori di piccole aziende, riducendo l’effetto mobilitativo dei due referendum congiunti.

Questo nuovo referendum invece, che pure partiva deliberatamente depotenziato dalla scelta della CGIL di non condividerlo con altri presentandolo come una specie di “prova di esistenza in vita” dell’organizzazione, aveva assunto un significato diverso e più importante dopo il risultato, da quasi tutti non previsto perlomeno nella misura, del clamoroso successo del NO nel referendum costituzionale del 4 dicembre (su cui è bene non dimenticare che la direzione della CGIL si era divisa, e aveva temporeggiato a lungo prima di prendere posizione).

Ed ecco partire i ricatti sui membri della Corte: argomento centrale quello che ripeteva che l’Italia rischia il caos se ci sarà un’altra sconfitta elettorale del governo in un referendum. Senza fare l’elenco completo dei giudici non al di sopra di ogni sospetto, basti ricordare il peso nella attuale composizione della Corte di un Giuliano Amato: come si può immaginare una sua collocazione al di sopra delle parti e delle classi?

Susanna Camusso ha preannunciato una risposta dura: uno sciopero? No, il ricorso ad un’altra Corte, ugualmente collocata coi piedi per terra e non nel regno di Utopia, quella europea. Qualcuno della base della CGIL, esasperato dall’inutilità del suo lavoro di raccoglitore di firme, in una telefonata a “prima pagina” di Radio3 ha ventilato il sospetto che la trappola fosse predisposta da chi aveva scritto il quesito proprio per provocare la sentenza negativa della Corte. Insomma per fare il bel gesto senza disturbare gli amici di Confindustria e del governo. Oltre a tutto per il ricorso alla Corte europea bisogna aspettare la stesura definitiva, per cui è legittimo il sospetto che si voglia perdere tempo facendo slittare non solo quello sull’art. 18 ma anche i due referendum residuati al 2018, anzi al 2019 per evitare l’accavallamento con la scadenza elettorale.

Inoltre, per non correre nuovi rischi, non è escluso che il governo neutralizzi con qualche ritocco il più importante dei quesiti sopravvissuti, quello sui voucher, lasciando solo quello meno comprensibile sui subappalti. Un quesito che non convince molto perché proprio le aziende più grandi sono quelle più esperte nell’aggiramento delle leggi, e sono quelle che ottengono più facilmente protezione e “rispetto” dagli apparati statali che dovrebbero controllarle. Come si può verificare da un altro dato: non occorre nessuna commissione parlamentare (di quale parlamento poi? Di quello senza onore composto di nominati e di transfughi che si sono venduti più volte al miglior offerente?) per sapere quel che appare agli occhi di tutti da sempre: le banche che negano ogni credito a un lavoratore e a una piccola azienda artigianale, hanno sempre regalato “prestiti” a fondo perduto a un Caltagirone, a un De Benedetti, a un Berlusconi…

L’abolizione dei voucher comunque, non risolverebbe quasi nulla, perché sopravvivrebbero mille forme di aggiramento delle poche norme rimaste a protezione dei lavoratori. In assenza di un sindacato combattivo e che trasmetta ai lavoratori una coscienza di classe, l’asimmetria del potere contrattuale tra chi ha grandi mezzi e chi cerca comunque un lavoro ripropone in forme diverse l’illegalità e l’ingiustizia.

Le illusioni nelle soluzioni affidate ai referendum anziché conquistate con le lotte hanno come fondamento la riduzione dei sindacati a dispensatori di piccoli servizi (a pagamento…), ma sono state alimentate dal feticismo della Costituzione, e quindi della magistratura e quindi anche della Consulta. Questa sentenza ci spinge a ricordare una delle prime conquiste del movimento operaio, la consapevolezza della natura di classe dello Stato e di tutti i suoi organi. E ci raccomanda di non cercare di ricorrere, ogni volta, alla scorciatoia di altri referendum, dato che, con qualche ritocco, anche se vinti, vengono sistematicamente aggirati come è avvenuto per l’acqua e tante altre istituzioni soppresse e poi riproposte con altro nome. Per imporne l’attuazione occorrerebbe ricostruire una forza capace di non temere lo scontro, altrimenti sono pezzi di carta o poco più.

Abbandonare queste illusioni è la premessa per ricostruire il movimento che ha imposto tutte le conquiste, sia agli albori del socialismo, sia nel primo e secondo dopoguerra, e poi con la nuova ondata di lotte degli anni Sessanta e Settanta, arrivate dopo anni in cui la classe operaia veniva data per morta o comunque rassegnata. È da quelle esperienze, che non godevano certo dell’appoggio delle istituzioni, che si deve ripartire.

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