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Sumud, come i palestinesi resistono alla marea

Israele/Palestina. Intervista a Michel Warschawski condirettore dell’Alternative information center (Aic), di Gerusalemme, raccolta e curata da Cinzia Nachira

di Michel Warschawski da http://rproject.it

bandera-palestina

Tra le molte questioni, comincerei col chiederti di fare un quadro generale dopo le ultime leggi che sono state votate dal parlamento israeliano: quella sulla legalizzazione delle colonie e quella che reprime coloro che sostengono il BDS (Boicottaggio, disinvestimento, sanzioni). Anche alla luce dei cambiamenti nella politica statunitense dopo l’elezione di Donald Trump.

Credo che in Israele stiamo vivendo un cambiamento decisivo. Senza idealizzare ciò che abbiamo vissuto negli ultimi cinquant’anni – uno Stato coloniale, discriminatorio e con forme di segregazione –, negli ultimi anni, per tappe successive, stiamo passando a qualcosa di diverso. Questo è stato ben sintetizzato dal ministro dell’istruzione, di estrema destra: Israele si definisce come uno Stato ebraico e democratico, ma ciò che è importante è il termine “ebraico”. Il termine “democratico” la preoccupa nella misura in cui rafforza il carattere ebraico dello Stato.

Dietro questa frase c’è una scelta, una rottura con una volontà che è stata sempre presente in Israele di mantenere la dimensione pseudo-democratica, non solo per delle ragioni di relazioni internazionali, ma anche per l’immagine che la società israeliana ha di se stessa. Per il modo in cui essa si guarda allo specchio. Ciò che oggi stiamo vivendo è l’assenza di rivendicazioni democratiche anche per noi stessi, ce ne infischiamo. Non vogliamo essere uno Stato democratico, vogliamo essere uno Stato che realizza un progetto di colonizzazione e di ebraicizzazione, qualunque siano le conseguenze in termini di libertà pubbliche e di immagine. Anche a costo di mettere in pericolo le buone relazioni con gli Stati che appartengono al “mondo democratico”. In questo senso, l’elezione di Donald Trump serve ad Israele come sostegno supplementare a questa evoluzione, o meglio degenerazione. Questo è ciò che io definisco un cambiamento di regime.

Donald Trump è anche questo, una rottura – almeno a livello di discorso, diverso è dire ciò che potrà fare – con una certa immagine che avevano gli stessi Stati Uniti di se stessi e che avevano le élites americane di ciò cui doveva assomigliare il loro Stato.

Gli Stati Uniti secondo Trump sono un’altra cosa rispetto agli Stati Uniti che secondo i Clinton, marito e moglie, o Barack Obama; direi perfino per Johnson. La rottura israeliana, parallelamente, si nutre di quella americana, nel senso di avere le mani libere per sbarazzarsi di quelli che possono essere percepiti come degli ostacoli per una politica senza limiti.

Vorrei aggiungere due elementi importanti. In Israele c’erano due bastioni contro l’arbitrio totale che permettevano l’esistenza di alcuni diritti: diritti umani, di cittadinanza, questi riguardo ai palestinesi israeliani, non degli abitanti dei territori occupati e questi erano la stampa e la Corte Suprema di Giustizia. Ora questi per il governo sono i due obiettivi da abbattere. Mettere al suo posto i mass media, far tacere le voci critiche. Non è un caso se Benjamin Netanyahu ha conservato per sé provvisoriamente il ministero dell’informazione, vuole radicalmente cambiare lostatus dei mass media in Israele e metterli in riga, sia attraverso la corruzione sia attraverso nuove leggi che sono in gestazione. E lo stesso destino aspetta la Corte Suprema. La ministra della giustizia, dell’estrema-estrema destra, ha detto che bisogna finirla con questa negazione della democrazia rappresentata dalla Corte Suprema: noi siamo gli eletti dal popolo, quindi la legge deve fare ciò che vogliamo. Quindi, la Corte Suprema non ha il diritto di fare ciò che ha spesso fatto nel passato: mettere dei limiti al potere esecutivo e dire che alcune decisioni non sono costituzionali. Visto che noi siamo eletti dal popolo è una negazione della democrazia impedirci di fare ciò che vogliamo. Per questa ragione attacca la Corte Suprema e lo ha annunciato nel suo programma elettorale. Lo ha fatto in due momenti. Il primo nel cambiamento della Corte Suprema, quando è riuscita a fare eleggere due nuovi giudici che rappresentano la cosiddetta fazione dei “non-attivisti” – dove per attivismo giuridico intendiamo l’intervento sulle decisioni politiche sulla base della costituzionalità o no –, i giudici “non-attivisti” sono quelli che dicono: non dobbiamo intervenire nelle scelte del governo, dobbiamo rispettare scrupolosamente la separazione dei poteri. La seconda tappa è un progetto di legge costituzionale che limiterà i poteri della Corte Suprema e la sua capacità di intervenire nelle decisioni politiche.

Se prendiamo tutto questo vedremo che si tratta di un cambiamento direi di regime. Si tratta di un nuovo Israele per niente bello, anzi bruttissimo.

Quindi, è peggio dell’Israele, per esempio, degli anni ’80 del secolo scorso?

Sicuramente sì. È un cambiamento qualitativo e penso che non sia un caso se due personalità che non appartengono all’estrema sinistra antisionista, tutt’altro, utilizzano la parola fascismo. Zeev Sternhell, un grande politologo che ha ricevuto il più importante premio di Israele, il riconoscimento maggiore dato a qualcuno. E Avraham Burg, ex presidente del parlamento. Entrambi, e Sternhell è uno studioso in particolare del fascismo francese degli anni trenta, dicono: siamo in una situazione di Stato fascista, non il fascismo genocida, ma quello degli anni trenta. Questa definizione di Israele può essere discussa, ma sicuramente è un nuovo Israele che stanno ricostruendo. Non è più quello che abbiamo conosciuto.

Non si deve idealizzare Israele degli anni sessanta o ottanta del secolo passato, ma ora c’è un salto indietro qualitativo.

Pensavo agli anni ottanta riguardo alla legge che vuole reprimere chi sostiene il BDS, perché all’epoca c’era la legge che indicava chi aveva rapporti con l’OLP come terrorista…

Oggi è molto peggio. All’epoca l’OLP era illegale, quindi le relazioni con quell’organizzazione erano vietate. Ma si restava ancora nel campo del diritto. Ma sostenere il BDS è l’espressione di un’opinione, non vuol dire avere contatti col nemico, ma significa sanzionare chi critica Israele e pensa che dovrebbe subire delle sanzioni. Questa legge per il momento tocca più i sostenitori del BDS che sono all’estero, ma criminalizza anche i militanti BDS all’interno. Anche se per ora non è stata ancora applicata, perché deve esprimersi ancora la Corte Suprema, che non  ha fretta di farlo. Ci sono delle somiglianze, hai ragione, ma questa situazione è molto più grave perché introduce il concetto di fedeltà. Il governo esige la fedeltà, che è un concetto fascista: il cittadino deve fare atto di fedeltà allo Stato.

Quando la ministra della cultura sanziona e taglia i fondi ad alcune istituzioni culturali, come per esempio il teatro Al-Midan di Haifa, uno dei migliori in Israele, lo fa perché non sono “fedeli allo Stato”. Criticano lo Stato per aver osato mettere in scena un testo teatrale di un ex attivista palestinese.

Come giustamente dice il professor Sternhell, il concetto di “fedeltà” è condizionato dal diritto, mentre la “fedeltà allo Stato” è un concetto fascista.

In Europa, in ogni caso in Italia e per quel che se ne sa anche in Israele, soprattutto dopo l’incontro tra Donald Trump e Benjamin Netanyahu, si è ricominciato a parlare dell’ipotesi dello Stato unico. In buona sostanza, chi sostiene questa tesi dice: bisogna prendere atto che ormai da tempo Israele ha sul terreno realizzato un unico Stato, eliminando ogni altra possibilità di soluzione; per cui ora è arrivato il momento di iniziare una battaglia, dentro e fuori Israele, per uno Stato unico, bi-nazionale e democratico. Su questo, a livello internazionale, ha iniziato una specie di campagna politica Jeff Halper (1) con delle interviste, in italiano ma anche in inglese. Qual è la tua opinione al riguardo?

Vorrei dire due cose. Primo: è una vecchia zuppa, andata a male, spacciata per una novità. È una tesi assai vecchia quella dell’irreversibilità dell’occupazione, su questo Meron Benvenisti (2), ne ha scritto alla fine degli anni settanta. Qualche anno dopo c’è stata l’Intifada e si è parlato di uno Stato palestinese, c’è stato Oslo; metodologicamente è stupido. Nulla è irreversibile, salvo se avviene un genocidio. Ma finché c’è una volontà palestinese di lottare, nulla è irreversibile. Il giorno in cui i rapporti di forza regionali e locali, si ribalteranno – non so quando, non parlo dell’immediato futuro – lo Stato unico per gli israeliani sarà la soluzione di ripiego.

Oggi i palestinesi sono in difficoltà nel fare avanzare l’idea di uno Stato indipendente, come hanno creduto fin dagli anni ’80, come possono avere la forza di imporre a Israele uno Stato bi-nazionale, democratico e laico? Questo è completamente assurdo. Se non hanno i mezzi per ottenere la metà, allora si dovrebbero battere per ottenere tutto? E per distruggere lo Stato ebraico? Cosa su cui Israele si batterà fino all’ultimo respiro. Possono accettare al limite un compromesso, se non hanno altra scelta. Ma lo Stato ebraico sarà l’ultima e la più dura battaglia. Per cui io non capisco, o meglio, mi rifiuto di capire come si faccia, se non si è in grado di ottenere una metà o una parte di territorio, a lottare per ottenerlo tutto.

Ma vorrei dire una seconda cosa, che è ancora più importante. Tu hai citato Jeff Halper, ma su questo argomento sono soprattutto i francesi a infastidirmi. Perché il dibattito in Francia, dove vado spesso, ruota sempre intorno a una domanda – come nell’ultimo incontro che ho avuto da poco: “Signor Warschawski, lei è per uno o due Stati?” come fossimo in un supermercato e dovessimo scegliere se comprare la birra in una bottiglia grande o in confezioni da sei piccole bottiglie.

Certamente, oggi non siamo alla viglia della soluzione, siamo in piena battaglia. Una battaglia difficile e il vero dibattito è sulla strategia da seguire. Questo è il dibattito fra i palestinesi e non tra persone come Jeff Halper completamente scollegate dalla realtà popolare palestinese. Come lottare, come difendere le terre palestinesi, come migliorare i rapporti di forza internazionali. Come reagire nel momento in cui crolla la Siria e anche l’Iraq e quando assistiamo alla fine dell’ordine di Sykes-Picot (3) nella regione.

Questo è il vero dibattito, non quello su quale sarà la soluzione. Questo è un lusso che si permettono quelli che chiamerei i “rivoluzionari da salotto”. Aggiungo che io sono abbastanza anziano per ricordare quando ero un giovane liceale e a tavola, a casa, in piena guerra d’Algeria, e in tutti gli ambienti più o meno intellettuali, si discuteva di “quale soluzione per la crisi algerina”? Dare la cittadinanza ai musulmani, l’autonomia nell’impero francese, l’integrazione dipartimentale…c’erano trenta soluzioni. Ma era tutto astratto. Quando i rapporti di forza sono cambiati e il movimento di liberazione nazionale algerino ha potuto imporre ai francesi i negoziati, sul tavolo restava una sola soluzione – cosa che il generale De Gaulle comprese: l’indipendenza. Allora, ciò che ai francesi restava da negoziare era come trarre i migliori benefici con il petrolio, con le relazioni commerciali, come risolvere la questione dei francesi d’Algeria i “pieds-noirs”.

La soluzione si impose da sola, tutti i dibattiti di dieci o vent’anni prima non avevano più senso, nessuno parlava più dell’autonomia all’interno dell’impero francese o di dare la cittadinanza ai musulmani. Ora il dibattito era: l’indipendenza e come realizzarla.

Io non posso avere l’arroganza di dire quale sarà la soluzione, ma penso che quando i rapporti di forza imporranno a Israele una soluzione, questa si imporrà. Non so quale.

A questo proposito, tu hai detto che i palestinesi sono in difficoltà, forse come mai lo sono stati negli ultimi decenni. Pur non chiedendoti quale deve essere la strategia dei palestinesi, tu vedi una via d’uscita possibile per superare questa debolezza?

Direi innanzitutto: occorre comprendere che la fase di Oslo, quando la posizione della cosiddetta comunità internazionale, la situazione regionale e la disponibilità di una parte importante della società israeliana, lasciava prevedere una soluzione di compromesso a breve termine – ossia la formula dei due Stati – si è chiusa. Siamo in un’altra fase, non di liberazione prossima, intendo nei prossimi dieci o quindici anni, perché  i rapporti di forza regionali, come quelli tra israeliani e palestinesi e il contesto internazionale sono sfavorevoli. Quindi la domanda che si pongono i palestinesi – non quelli che si sentono più palestinesi dei palestinesi – è: come resistere. Penso che più che parlare di liberazione o di strategia di liberazione, c’è una strategia di resistenza, a tutti i livelli: come mantenere i rapporti internazionali, come rafforzare i rapporti di forza regionali, come impedire la degradazione per i palestinesi di questi rapporti di forza. In altri termini, bisogna “aggrapparsi”. La parolasumud, che è molto importante direi nella filosofia politica del popolo palestinese, significa “aggrapparsi”, resistere alla marea. Oggi, più che mai, questo è il quadro in cui i palestinesi riflettono: come proteggere la terra. Come impedire l’esplosione della società palestinese – che è la strategia israeliana come lo era di George W. Bush: separare i rifugiati dall’interno, Gaza dalla Cisgiordania…

Come ricostruire l’unità, questo è il problema reale, non quello della liberazione. Ossia, ricostruire le condizioni per una resistenza più efficace.

Questo è il dibattito e, invece, discutere di quale dovrebbe essere la soluzione è quasi da irresponsabili.

Dopo il cambio alla Casa Bianca, Israele ha stretto ancora di più i rapporti con i Paesi arabi più reazionari. Mi chiedo se Israele è pronto, visto il caos regionale, ad approfittare di questa situazione, grazie alla carta bianca ottenuta da Donald Trump.

La lettura dei dirigenti israeliani è di aver ottenuto un assegno in bianco per proseguire e accelerare la politica di colonizzazione e di aggressione contro “l’asse sciita” (Siria, Iran e gruppi pro siriani e iraniani in Libano). Personalmente avrei voglia di dire ai dirigenti israeliani: attenzione! Dal vostro punto di visto, non dal mio. Se punterete tutte le vostre carte su Trump, sappiate che è totalmente imprevedibile. Non ha il tipo di legami con la lobbie evangelista, quella ebraica e tutte quelle pro-israeliane. Trump è libero da queste lobbies, diversamente da tutti i presidenti statunitensi a partire da Eisenhower (4). Può assai facilmente arrivare, per esempio, a un accordo regionale con i russi e non nella direzione sperata da Netanyahu e la sua cricca oggi al governo in Israele.

Questa è la mia lettura della realtà. Trump non è per niente legato a Israele. Trump è tutto e niente…

Vero, anche perché Trump è legato alle correnti politiche antisemite statunitensi fino al Ku Klux Klan…

Giusto e questo dovrebbero ricordarselo i dirigenti israeliani…

Ma Israele ha sempre approfittato dei contesti favorevoli. Nel 2008-2009, Tzipi Livni, allora capo del governo, diceva ai governi alleati occidentali: “ a noi non importa nulla e di nessuno: facciamo ciò che vogliamo”, durante Piombo Fuso…Oggi, con un governo peggiore, se possibile di quello del 2008-2009, è ancora più pericoloso, perché potrebbero portare alle estreme conseguenze la frase di Tzipi Livni…

Sì, è vero. In ogni caso è ciò che pensa il governo, ossia che ci sono meno limiti di prima. Ma anche nella dichiarazione della Livni di quell’epoca, c’era molto fumo: facciamo quel che vogliamo, etc. Questi sono i discorsi, ma sanno che ci sono dei limiti, che Israele vive in un contesto globale e che non può permettersi una destabilizzazione totale, di cui potrebbe restare vittima lo stesso Israele. E anche se negli Stati Uniti c’è un folle furioso come Trump, ci sono anche la CIA, il Pentagono, che sanno come salvaguardarsi a livello internazionale. L’onnipotenza di Israele può stare nei discorsi e in alcune azioni, ma ha dei limiti. Israele resta una grande potenza regionale, ma dipendente dal resto del mondo…

Ma, Trump sembra, almeno, avere degli obiettivi che sono gli stessi di Israele, per esempio, riguardo all’Iran…che per Israele resta la personificazione del diavolo e verso cui Trump vuole cambiare la politica inaugurata da Obama. Mi chiedo se in questo senso Netanyahu può decidere di attaccare più direttamente l’Iran. D’altronde, il recente attacco israeliano in Siria, forse, può essere interpretato in questo senso…

Secondo me ciò che è importante riguardo all’attacco in Siria è la reazione russa che è stata fermissima. Da poco ho ascoltato il radiogiornale, e ciò che i russi hanno detto all’ambasciatore israeliano è stato: è l’ultima volta che fate una cosa del genere. Ripeto, visti gli stretti rapporti, almeno per il momento, tra Trump e Putin il risultato per Israele può essere esattamente contrario ai desideri. Per me Trump è un grande punto interrogativo, non perché sia un grande stratega, ma proprio perché è un personaggio superficiale e salta da una cosa all’altra, per ora mal consigliato. L’unico dato più certo per ora sembrano essere le sue relazioni con i russi (gira una barzelletta che vuole che Trump sia un agente russo). Sono certo che i russi faranno intendere a Israele per il tramite di Trump: smettete le provocazioni contro la Siria o l’Iran, perché ci siamo noi.

1. Jeff Halper, fondatore e presidente dell’ICHAD, Comitato Israeliano contro la Demolizione di Case

2. Meron Benvenisti, ex vicesindaco di Gerusalemme, con l’incarico per la sua parte orientale, fra il 1971 e il 1978. Cartografo e politologo.

3. Gli accordi di Sykes-Picot furono stabiliti segretamente fra la Francia e la Gran Bretagna nel 1916, realizzando una spartizione fra le grandi potenze che di fatto ha resistito per cento anni, fino al 2016. Furono resi pubblici nel 1917 all’indomani della rivoluzione russa, grazie al fatto che una copia era stata fatta pervenire allo Zar Nicola II, che li conservava nelle casseforti, aperte dopo la rivoluzione.

 

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