di Maurizio Zuccari
Cinquant’anni fa moriva Totò, principe della risata e di Bisanzio. Miseria, nobiltà e attualità di un personaggio tanto umano da essere lunare. E la sua maschera, tanto più vera in tempi di post verità
Qui riposa Antonio De Curtis, principe di Bisanzio, in arte Totò. Così recita il cartello, fianco alla cappella nel cimitero napoletano di Santa Maria del Pianto. Il resto dei nomi – una parte, ché tutti non entravano – sono sulla facciata di marmo, a riprova della fissazione per i titoli nobiliari che gli era costata un patrimonio, a lui che era nato povero e figlio di n. n. All’ingresso, intristito da infissi d’alluminio, la lapide con la poesia ‘a Livella. L’autore, il principe di Bisanzio e della risata morto cinquant’anni fa, il 15 aprile 1967, riposa qui. Nella cappella di famiglia dov’è sepolta anche Liliana Castagnola, la seducente soubrette che per lui si tolse la vita e dette il nome alla figlia avuta dalla prima moglie, Diana Bandini. E la salma del figlioletto Massenzio che visse solo poche ore, avuto dalla compagna Franca Faldini. E qui la sua Napoli sempre meno milionaria l’omaggia con una ridda di foglietti e dolcetti, ex voto da far invidia a San Gennaro. E mentre la casa natale al rione Sanità – comprata all’asta per 18mila euro – cade a pezzi e va in rovina e al Palazzo dello Spagnolo il museo a lui dedicato non riesce ad aprire seriamente i battenti, la città lo celebra con una triplice mostra.
Totò, il genio, titola la monumentale rassegna aperta fino al 9 luglio a palazzo Reale, Castel Nuovo e al convento di san Domenico per raccontare a tutto tondo l’uomo, con le sue grandezze e bassezze, e l’artista poliedrico. Poeta e canzoniere oltre che attore dall’impareggiabile vis comica. È morta l’ultima grande maschera della commedia dell’arte, disse Manfredi in occasione del funerale romano. Il primo, con un seguito d’amici e d’artisti ai quali alle esequie napoletane s’aggiunse una folla di 250mila persone in deliquio, ferimenti e trasalimenti, e non molte meno al terzo funerale. Quello con la bara vuota, voluto dal capoguappo del rione natale – Luigi Campoluongo, detto faccia ‘e cane – che l’ammirava e tanto l’aveva aiutato a ottenere i sospirati quarti di nobiltà, convincendo lo squattrinato marchese De Curtis a impalmare la madre da cui l’aveva avuto, diciassettenne. E coi suoi guappi, camorristi in nuce, Totò girava nottetempo la città, narra la leggenda, a infilare banconote sotto le porte dei bisognosi. Dono ai miserabili da parte di chi a pane e povertà era cresciuto. Poi, dopo tanta miseria, sarebbero arrivati successi e nobiltà, la sfilza dei titoli a pagamento (da un erede dei principi di Bisanzio povero in canna ma ricco di quarti nobiliari) di cui faceva mostra nella sontuosa casa ai Parioli, tanto lunga da non entrare sulla facciata della cappella mortuaria.
Miserie, fissazioni come la gelosia o la superstiziosità che rendono ancora più umano il personaggio, veridica la sua maschera. E sempreverde. A cinquant’anni dalla scomparsa, Totò resta più vivo che mai. Le sue battute surreali e spiazzanti fanno ancora ridere la generazione dei millennials, come i padri e i nonni prima di loro, i suoi film continuano a essere trasmessi a raffica e sono tra i pochi a frenare lo zapping. Anche quelli meno riusciti del centinaio girati, stroncati dalla critica coèva e snobbati dai registi di fama, contengono perle. La sua figura primeggia sui grandi attori italiani, svetta su altre icone contemporanee, quali Sordi o Troisi. Scrisse su Paese Sera Eduardo de Filippo, nel giorno della scomparsa, che Totò andava visto «non come una curiosità da teatro, ma come una luce che miracolosamente assume le fattezze di una creatura irreale che ha facoltà di rompere, spezzettare e far cadere a terra i suoi gesti e raccoglierli poi per ricomporli di nuovo, e assomigliare a tutti noi, e che va e viene, viene e va, e poi torna sulla Luna da dove è disceso».
Ecco, forse migliore epitaffio e spiegazione non è possibile, a cinquant’anni dalla morte e dal funerale uno e trino. La genialità di totò, il segreto della sua contemporaneità, non sta nell’essere stato un superbo caratterista, tantomeno un mero macchiettista o un fenomeno da baraccone. Ma nell’aver saputo cogliere e rappresentare l’umano di tutti noi, oltre il tempo e lo spazio. Un personaggio lunare, appunto. Un sublime malincomico. Ecco perché Totò post mortem è capace di colmare i vuoti del post moderno, la sua maschera di verità resta attuale anche in tempi di post verità come i nostri.
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