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Gramsci: perché la rivoluzione russa è una rivoluzione proletaria

Gramsci. 80 anni fa la morte del rivoluzionario sardo. Presentiamo le sue Note sulla rivoluzione russa inserite in un recentissimo volume curato da Guido Liguori, “Come alla volontà piace” per Castelvecchi

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Quando arrivarono in Italia gli echi della prima Rivoluzione russa del 1917, quella che ebbe luogo tra il 23 e il 27 febbraio, secondo il calendario allora vigente in quel Paese (tra l’8 e il 12 marzo, per il calendario in vigore in Occidente), Antonio Gramsci aveva 26 anni, viveva a Torino e lavorava dal dicembre 1915 per la stampa socialista di quella città, ovvero per l’edizione torinese dell’«Avanti!» e per il settimanale dei socialisti torinesi «Il Grido del Popolo».

di Antonio Gramsci

Perché la rivoluzione russa è rivoluzione proletaria? A leggere i giornali, a leggere il complesso delle notizie che la censura ha permesso di pubblicare, ciò non si capisce troppo.

Sappiamo che la rivoluzione è stata fatta dai proletari (operai e soldati), sappiamo che esiste un comitato di delegati operai1 che controlla l’opera degli enti amministrativi che necessariamente si sono dovuti mantenere per il disbrigo degli affari ordinari. Ma basta che una rivoluzione sia stata fatta dai proletari perché essa sia rivoluzione proletaria? Anche la guerra è fatta dai proletari, eppure essa non è, solo perciò, un fatto proletario.

È necessario perché ciò sia che intervengano altri fattori, i quali sono fattori spirituali. È necessario che il fatto rivoluzionario si dimostri, oltre che fenomeno di potenza, anche fenomeno di costume, si dimostri fatto morale.

I giornali borghesi hanno insistito sul fenomeno di potenza, ci hanno detto come sia avvenuto che la potenza dell’autocrazia sia stata sostituita da un’altra potenza non ancora ben definita e che essi sperano sia la potenza borghese. E hanno subito istituito il parallelo: rivoluzione russa, rivoluzione francese, e hanno trovato che i fatti si rassomigliano.

Ma è solo la superficie dei fatti che si rassomiglia, così come un atto di violenza rassomiglia a un altro atto di violenza, e una distruzione rassomiglia a una altra distruzione.

Eppure noi siamo persuasi che la rivoluzione russa è, oltre che un fatto, un atto2 proletario, e che essa necessariamente deve sfociare nel regime socialista. Le poche notizie veramente concrete, veramente sostanziali, non permettono una dimostrazione esauriente. Tuttavia alcuni elementi ci sono che ci permettono di arrivare a questa conclusione.

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***

La rivoluzione russa ha ignorato il giacobinismo. La rivoluzione ha dovuto abbattere l’autocrazia, non ha dovuto conquistare la maggioranza con la violenza. Il giacobinismo è fenomeno puramente borghese3: esso caratterizza la rivoluzione borghese di Francia. La borghesia, quando ha fatto la rivoluzione, non aveva un programma universale: essa serviva degli interessi particolaristici, gli interessi della sua classe, e li serviva con la mentalità chiusa e gretta di tutti quelli che tendono a dei fini particolaristici.

Il fatto violento delle rivoluzioni borghesi è doppiamente violento: distrugge l’ordine vecchio, impone l’ordine nuovo. La borghesia impone la sua forza e le sue idee non

solo alla casta prima dominante, ma anche al popolo che essa si accinge a dominare. È un regime autoritario che si sostituisce a un altro regime autoritario.

La rivoluzione russa ha distrutto l’autoritarismo e gli ha sostituito il suffragio universale4, estendendolo anche alle donne. All’autoritarismo ha sostituito la libertà, alla costituzione ha sostituito la libera voce della coscienza universale.

Perché i rivoluzionari russi non sono giacobini, non hanno cioè sostituito alla dittatura di un solo, la dittatura di una minoranza audace e decisa a tutto pur di far trionfare il suo programma? Perché essi perseguono un ideale che non può essere solo di pochi, perché essi sono sicuri che quando tutto il proletariato russo sarà da loro interrogato, la risposta non può essere dubbia: essa è nelle coscienze di tutti, e si trasformerà in decisione irrevocabile non appena potrà esprimersi in un ambiente di libertà spirituale assoluta, senza che il suffragio sia pervertito dall’intervento della polizia e dalla minaccia della forca o dell’esilio.

Il proletariato industriale è già preparato al trapasso anche culturalmente: il proletariato agricolo, che conosce le forme tradizionali del comunismo comunale, è anche esso preparato al passaggio a una nuova forma di società5. I rivoluzionari socialisti non possono essere giacobini: essi in Russia hanno solo attualmente il compito di controllare che gli organismi borghesi (la duma6, gli zemvsta7) non facciano essi del giacobinismo per rendere equivoco il responso del suffragio universale, e volgere il fatto violento ai loro interessi.

***

I giornali borghesi non hanno dato alcuna altra importanza a questo altro fatto. I rivoluzionari russi hanno aperto le carceri non solo ai condannati politici, ma anche ai condannati per reati comuni. In un reclusorio i condannati per reati comuni all’annunzio che erano liberi, risposero di non sentirsi in diritto di accettare la libertà perché dovevano espiare le loro colpe. A Odessaessi si radunarono nel cortile della prigione, e volontariamente giurarono di diventare onesti e di far proposito di vivere del loro lavoro. Questa notizia ha importanza, ai fini della rivoluzione socialista, quanto e più di quella della cacciata dello Zar e dei Granduchi. Lo Zar sarebbe stato cacciato anche dai borghesi. Ma per i borghesi questi condannati sarebbero stati sempre i nemici del loro ordine, i subdoli insidiatori della loro ricchezza, della loro tranquillità.

La loro liberazione ha per noi questo significato: in Russia è un nuovo costume che la rivoluzione ha creato. Essa ha non solo sostituito potenza a potenza, ha sostituito costume a costume, ha creato una nuova atmosfera morale, ha instaurato la libertà dello spirito oltre che la libertà corporale. I rivoluzionari non hanno avuto paura di rimettere in circolazione uomini che la giustizia borghese ha bollato col marchio infame di pregiudicati, che la scienza borghese ha catalogato nei vari tipi di criminali delinquenti. Solo in un’atmosfera di passione socialista può avvenire un tal fatto, quando il costume è cambiato, quando la mentalità predominante è cambiata.

La libertà fa gli uomini liberi, allarga l’orizzonte morale, del peggiore malfattore in regime autoritario, fa un martire del dovere, un eroe dell’onestà. Dicono i giornali che in una prigione questi malfattori hanno rifiutato la libertà e si sono eletti i guardiani.

Perché non hanno fatto mai ciò prima, perché la loro prigione era cintata di muraglioni e le finestre erano difese da inferriate? Quelli che andarono a liberarli dovevano avere una faccia ben diversa dai giudici dei tribunali e dagli aguzzini del carcere, parole ben diverse dalle solite dovettero sentire questi malfattori comuni se una tale trasformazione si fece nelle loro coscienze, se essi divennero d’un tratto così liberi da essere in grado di poter preferire la segregazione alla libertà, da imporsi essi, volontariamente, una espiazione. Dovettero sentire che il mondo era cambiato, che anche essi, i rifiuti della società, erano diventati qualcosa, che anch’essi, i segregati, avevano una volontà di scelta.

È questo il fenomeno più grandioso che mai opera umana abbia

prodotto. L’uomo malfattore comune è diventato, nella rivoluzione russa, l’uomo quale Emanuele Kant, il teorizzatore della morale assoluta, aveva predicato, l’uomo che dice: l’immensità del cielo fuori di me, l’imperativo della mia coscienza dentro di me9. È la liberazione degli spiriti, è l’instaurazione di una nuova coscienza morale che queste piccole

notizie ci rivelano. È l’avvento di un ordine nuovo, che coincide con tutto ciò che i nostri maestri ci avevano insegnato.

E ancora una volta: la luce viene dall’oriente e irradia il vecchio mondo occidentale, che ne rimane stupito e non sa opporgli che la banale e sciocca barzelletta dei suoi pennivendoli.

* «Il Grido del Popolo», 29 aprile 1917 (firmato: A. G.).

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