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L’identità è una roba che si mangia

In libreria dall’11 giugno Identità culinarie in Sudamerica a cura di Camilla Cattarulla

di Camilla Cattarulla

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In libreria dall’11 giugno Identità culinarie in Sudamerica a cura di Camilla Cattarulla [NovaDelphi Libri, collana Viento del Sur pagine 272 Euro 13,00]

Chef stellati, talent televisivi, rubriche culinarie. Mai come oggi il nostro quotidiano è invaso dal cibo e dai suoi “esperti”. Ma il cibo è intimamente legato, anche e soprattutto, alle radici di ognuno. I contributi inseriti nel volume ci parlano del cibo, della sua preparazione e del suo consumo come esperienza di vita e di movimento in uno spazio geografico, il Sudamerica, che si conferma essere un vivace laboratorio in grado di restituirci la complessità dell’identità culturale. Ecco l’introduzione al volume Identità culinarie in Sudamerica

Certamente la storia dell’alimentazione non è più un ambito di ricerca pionieristico come lo era mezzo secolo fa con gli studi di Claude Lévi-Strauss, Roland Barthes, Mary Douglas e Pierre Bourdieu. Attualmente il tema del cibo coinvolge un ampio spettro di discipline (dalla medicina alla dietetica, all’antropologia, alla storia, alla religione, alla biologia, alla filosofia, alla letteratura, all’economia) e varie tipologie di fonti scritte e orali.

Per Roland Barthes il cibo è “nello stesso tempo un sistema di comunicazione, un corpo di immagini, un protocollo di usi, di situazioni e di comportamenti.”2 E Massimo Montanari aggiunge: “esattamente come il linguaggio, la cucina contiene ed esprime la cultura di chi la pratica, è depositaria delle tradizioni e dell’identità di un gruppo.” Essa, “non solo è strumento di identità culturale, ma il primo modo, forse, per entrare in contatto con culture diverse. […] Più ancora della parola, il cibo si presta a mediare fra culture diverse, aprendo i sistemi di cucina a ogni sorta di invenzioni, incroci e contaminazioni.”3 Insomma, cosa, come, con chi e quando si mangia ci dice molto sull’identità di un popolo o di un determinato gruppo sociale. In questo senso, gli studi semiotici e antropologici hanno messo in evidenza come attraverso il sistema di comunicazione del cibo si definiscano (o autodefiniscano) rapporti di potere, distinzioni tra classi sociali, questioni di genere, vincoli tra popoli lontani, identità nazionali, locali e meticce, pratiche religiose o schemi dottrinali e finanche tradizioni letterarie.

Di tutto ciò i contributi presentati in questo volume vogliono dare conto concentrando l’interesse sul Sudamerica ed esponendo un ventaglio di situazioni storico-politiche, antropologiche, linguistiche e letterarie su come il cibo, in quanto forma di linguaggio, sia veicolo (dalla Scoperta ai giorni nostri) di modelli e processi culturali nel tessuto sociale dell’America del Sud, da considerare qui come un macro-studio di caso.

La fitta rete di codici, riti e rapporti culturali, sociali, simbolici e ideologici sul cibo in Sudamerica è presente in tutti i contributi pur nella specificità dei casi trattati. Così, i saggi di Sonia Montecino Aguirre e Ana Lía Rey ci ricordano come, tradizionalmente, alla donna si attribuisca il ruolo di svolgere il processo di circolazione e radicamento dei modelli alimentari, ma anche come la donna abbia saputo mettere a frutto questo suo ruolo per inserirsi nella sfera pubblica e, dallo spazio della cucina, rivendicare i propri diritti politici e sociali, inserirsi nel discorso sulla formazione dell’identità nazionale o partecipare a ideologie politiche per la crescita sociale.

Il cibo, poi, è un elemento sempre in viaggio e, come tale, accompagna qualunque fenomeno migratorio determinando cambiamenti negli usi alimentari sia nelle collettività di partenza sia in quelle di arrivo. In un tale processo, il cibo mantiene un legame con la società di appartenenza e allo stesso tempo costruisce una nuova identità. Un caso esemplare in proposito è quello del mais che, nell’Italia settentrionale del XVIII secolo, per una serie di congiunture economiche e storiche, andò a sostituire il miglio e altri cereali nella preparazione della polenta e, con questa nuova identità culinaria, è poi tornato nell’America meridionale con l’emigrazione di massa della seconda metà del XIX secolo. E analoghe considerazioni si potrebbero fare per altri prodotti americani (patate, pomodori, peperoncino). Proprio per queste implicazioni, il caso argentino, illustrato nei contributi di Diego Armus con Lisa Ubelaker-Andrade e Camilla Cattarulla, ci ricorda come il fenomeno migratorio abbia determinato una grammatica culinaria segnata dalla mescolanza e dalla difficoltà di definire una cucina nazionale.

Alle caratteristiche identitarie sono dedicati anche i lavori di Claudia Borri e Zelda Alice Franceschi. Il primo è incentrato sul Cile, dove pure il sistema culinario si è sviluppato come ibrido e stratificato grazie all’apporto di culture diverse: da quelle indigene, in particolare aymara e mapuche, a quelle europee, soprattutto spagnola, tedesca, inglese, francese e italiana, con uno sguardo che va dalla Conquista ai giorni nostri, in cui il consumismo e la globalizzazione stanno incidendo sulle abitudini alimentari, nonché sulle cariche simboliche di determinati cibi. Il secondo ci riporta in Argentina e precisamente nella regione del Chaco, con la presen­tazione del caso della popolazione indigena Wichí, le cui scelte alimentari attuali, fortemente influenzate dal contesto locale e da quello globale, sono indicative rispetto ai criteri di costruzione sociale, politica e culturale dell’essere indigeni nel XXI secolo.

Sul tema del “gusto” (e “disgusto”) riflette anche il contributo di Giorgio de Marchis incentrato sul Brasile. Attraverso l’analisi di opere letterarie e ricettari pubblicati a partire dagli ultimi trenta anni del XIX secolo e fino al 1930, de Marchis riflette su come la cucina in Brasile si trasformi in un vero e proprio progetto di nazione nel tentativo di “portare in tavola un Brasile rigorosamente bianco” (p. 108), mettendo ancora una volta in primo piano i rapporti tra la sostanza del cibo e la sua carica simbolica e ideologica.

Il valore sociale del cibo, ovvero il ruolo assunto dal convivio, circostanza che può anche confliggere con la valenza nutritiva di cosa si mangia, è messo in evidenza dal contributo di Fernando Diego Rodríguez dedicato ai banchetti organizzati in caffetterie e ristoranti di Buenos Aires, negli anni ’20 e ’30, dalle avanguardie poetiche argentine. La partecipazione a una tavola comune, infatti, può essere indicativa dell’appartenenza a un gruppo, ma può anche segnalare un rapporto tra gruppi diversi, come si evince dal contributo.

Le grammatiche culinarie possono riguardare anche questioni dottrinali. È quanto esamina Luigi Guarnieri Calò Carducci a proposito del cacao e del suo uso nei territori del Nuovo Mondo e in Europa tra il XVI e il XVIII secolo, con particolare attenzione al 1600, quando una ricca produzione saggistica sulla cioccolata dà luogo a una diatriba sulla sua capacità di rompere il digiuno durante la penitenza cattolica. Infine, il contributo di Salvador Pippa ci ricorda come oggi, in Brasile, come altrove nel mondo, si assiste a una vera e propria invasione delle ricette culinarie nei programmi televisivi, su internet, sui giornali, nei film e nelle telenovelas. Se è vero che la presentazione delle ricette segue di solito uno schema tipico, “globalizzato”, nella loro scrittura (e traduzione) possono registrarsi differenze legate alle scelte lessicali, sintattiche e pragmatiche tipiche della lingua e della cultura di appartenenza.

Il cibo traduce una cultura, ma è anche specchio dei meccanismi che agiscono in un incontro/scontro tra culture di cui realizza una sintesi efficace. Tutti i contributi inseriti nel volume ci parlano del cibo, della sua preparazione e del suo consumo come esperienza di vita, movimento, contatto, trasformazione e modernità delle dinamiche che esso ha attivato e continua ad attivare in Sudamerica, uno spazio che, anche in ambito culinario, si conferma essere un grande laboratorio atto a significare la complessità dell’identità culturale.

Camilla Cattarulla insegna Lingua e letterature ispano-ameri­cane all’Università di Roma Tre. Si occupa di letteratura di viag­gio, dell’emigrazione e dell’esilio, di identità nazionale, di diritti umani, dei rapporti tra iconografia e letteratura e tra letteratura e politica. Per Nova Delphi Libri, oltre ad aver curato diverse pub­blicazioni, dirige la collana Viento del Sur.

2 R. Barthes, “Alimentazione contemporanea”, in G. Marrone, A. Giannitrapani (a cura di), La cucina del senso. Gusto, significazione, testualità, Mimesis, Milano 2012, p. 49.

3 M. Montanari, Il cibo come cultura, Laterza, Roma-Bari 2006, p. VII.

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