Si è concluso il primo grado del processo per lo stupro di Parma, avvenuto sette anni fa nella sede della Rete Antifascista parmigiana
di Marina Zenobio
4 anni e 8 mesi agli “antifascisti” parmigiani Francesco Concari e Francesco Cavalca, 4 anni al romano Valerio Pucci, più un risarcimento alla vittima pari a 21 mila euro. Si è concluso con queste condanne il processo di primo grado per lo stupro di gruppo avvenuto setti anni fa nella sede della Raf, Rete Antifascista parmigiana, in una notte da incubo del 12 settembre 2010, al termine di una iniziativa per festeggiare il riccorenza della cacciata delle camice nere dalla città di Parma, nel 1922. “Claudia”, la donna stuprata, all’epoca aveva appena compiuto di 18 anni e per molto tempo ha tenuto per sé il segreto di quella terribile lunghissima notte, perché inizialmente non ricordava tutto – se non di essersi svegliata all’alba su un tavolo di legno, i vestiti a terra e i segni sul corpo di ciò che le avevano fatto -, perché temeva di non essere creduta, per “proteggere” i genitori, ma soprattutto perché minacciata se avesse denunciato l’accaduto.
Ad inchiodare gli stupratori “antifascisti”, indipendente dalla denuncia della donna, un video che uno del branco aveva girato riprendendo tutte le fasi della violenza. Video che, ironia della sorte, viene alla luce dopo che il 30 agosto del 2013 una bomba carta viene fatta scoppiare nei pressi della sede di Casa Pound a Parma. Mentre i carabinieri indagano su Raf e circoli anarchici, vengono sequestrati alcuni cellualari e su uno di questi c’è la videoregistrazione di tutte le fasi dello stupro. A quel punto, indipendentemente dalla denuncia della donna, la Procura di Parma persegue d’ufficio il crimine di stupro di gruppo ricostruendone tutti i fatti, non senza pressioni sulla parte lesa.
Quel video però non era rimasto segreto per tutto quel tempo. Erano state tante le compagne i compagni a visionarlo deridendo e appellando la vittima con nomignoli brutali quanto la violenza subita. Solo dopo che lo stupro di “Claudia” è diventato di dominio pubblico sul web sono piovuti comunicati di indignazione, rabbia, condanna nei confronti degli stupratori e di solidarietà con la donna. Perché tanta indifferenza, disprezzo e banalizzazione in un ambito dove “antifascismo” dovrebbe fare rima con “antisessismo”?
C’è molto da chiedersi e tante risposte da trovare. Ma quello che emerge da questa storia è che la cultura dello stupro, così come ogni forma di violenza di genere, non ha confini. Quegli stereotipi di genere che tanto condanniamo sono così profondamente radicati da determinare, nella società in cui viviamo, i ruoli di uomini e donne, anche laddove crediamo di essercene liberat*. Non si può essere antifascist* senza condannare nell’intimo ogni forma di sessismo, senza essere antisessist*.
Evidentemente la strada da percorrere è ancora più lunga di quanto ci siamo illuse e illusi. “Claudia”, scusaci se puoi.