F-35, rapporto della Corte dei Conti: programma in ritardo e sempre più costoso ma impossibile mollare. Mica vero
di Checchino Antonini
Il programma F-35 «è oggi in ritardo di almeno 5 anni», scrive la Corte dei Conti, per le «molteplici problematiche tecniche» che hanno fatto anche si che i costi del super-caccia siano «praticamente raddoppiati»; anche le prospettive occupazionali per l’Italia «non si sono ancora concretizzate nella misura sperata». Tuttavia, «l’esposizione fin qui realizzata in termini di risorse finanziarie, strumentali ed umane è fondamentalmente legata alla continuazione del progetto» ed uscirne ora produrrebbe importanti perdite economiche.
«Non è vero però come dice la Corte dei Conti – ribatte Giulio Marcon, capogruppo dei deputati di Sinistra Italiana-Possibile. – che non possiamo più fermarci e che abbiamo investito troppi soldi per poter tornare indietro. Possiamo dire ancora no agli F35 e risparmiare 14 miliardi di euro, destinandoli al lavoro e al welfare».
È un’analisi che non fa sconti quella realizzata dalla Sezione di controllo per gli Affari comunitari e internazionali della Corte dei conti sulla «Partecipazione italiana al Programma Joint Strike Fighter-F35 Lightning II». L’analisi della Corte, in una fase in cui si discute della prosecuzione o dell’ulteriore ridimensionamento della partecipazione italiana al programma, riguarda solo l’aspetto economico. E parte dalla «constatazione che le molteplici problematiche tecniche riscontrate negli anni (e ancora non tutte risolte) hanno portato con sé ritardi» di almeno 5 anni rispetto al previsto – per la piena capacità di combattimento si dovrà aspettare almeno il 2021 – e «notevoli aumenti del costo finale» di ogni apparecchio, «praticamente raddoppiati».
Ecco le raccomandazioni della Corte dei Conti
Per l’Italia, ricorda la Corte, sono intervenute due decisioni: «la prima (nel 2012) ha ridotto da 131 a 90 il numero di velivoli da acquisire» (finora sono stati consegnati all’Aeronautica militare sette velivoli); «la seconda (nel 2016) ha impegnato il governo, per aderire alle indicazioni parlamentari, a dimezzare il budget dell’F-35, originariamente previsto in 18,3 miliardi di dollari». La prima decisione «ha avuto un costo per la base industriale» perchè vi è stata «la perdita, in quota percentuale, delle opportunità di costruire i cassoni alari nello stabilimento di Cameri (Novara)»; la seconda ha prodotto finora «un risparmio temporaneo pari a 1,2 miliardi di euro nel quinquennio 2015-2019, ma senza effetti di risparmio nel lungo periodo». Per quanto riguarda le ricadute economiche, la Corte sottolinea come queste siano al di sotto delle attese, «anche per effetto del rallentamento generale del programma (che ha raggiunto per ora solo il 10% della produzione totale)». Risultati inferiori alle attese soprattutto per l’occupazione – «si parla per il momento di circa 1.600 unità effettivamente impiegate, a fronte di una ‘forchetta previsionalè annunciata tra 3.586 e 6.395 unità» – e per il funzionamento della base di Cameri, che allo stato risulta «sovradimensionata» e sotto-occupata. Ma «se i ritorni programmati sono risultati ridimensionati rispetto alle aspettative, essi non sono però compromessi – avverte la Corte – e il prossimo avvio della piena produzione lascia aperte le prospettive per il futuro». «Gli ingenti investimenti effettuati (3,5 miliardi di euro fino a fine 2016, e più di 600 milioni ulteriori, previsti nel 2017) trovano la propria giustificazione in una logica di continuità», sottolinea la Corte dei Conti, secondo cui «l’opzione di ridimensionare la partecipazione nazionale al programma, pur non soggetta di per sé a penali contrattuali, determina potenzialmente una serie di effetti negativi», in primis «la perdita degli investimenti sostenuti finora, compresi quelli attinenti il sito di Cameri» e «la perdita delle opportunità collegate» allo stabilimento piemontese, la cui competitività è «fortemente legata» al mantenimento da parte dell’Italia degli impegni presi finora. La valutazione complessiva del progetto, si legge nella relazione «deve tener conto della circostanza che l’esposizione fin qui realizzata in termini di risorse finanziarie, strumentali ed umane è fondamentalmente legata alla continuazione del progetto. Alla sua continuazione corrispondono infatti non solo i costi fin qui affrontati ed i ritorni economici già realizzati, ma soprattutto i costi in termini di perdite economiche, ove avesse termine o si riducesse sostanzialmente la partecipazione al programma».
Ecco quanto ci costano le armi e la casta in divisa
Va ricordato alla magistratura contabile che, «nell’ultimo decennio le spese militari italiane sono cresciute del 21% (del 4,3% in valori reali) salendo dall’1,2 all’1,4% del Pil (non l’1,1% dichiarato dalla Difesa). L’Italia nel 2017 spenderà per le Forze armate almeno 23,4 miliardi di euro (64 milioni al giorno), più di quanto previsto nei documenti programmatici governativi dell’anno scorso». Così l’Osservatorio sulle spese militari italiane nel suo rapporto presentato a novembre alla Camera. Numeri che fanno a pezzi la vulgata sull’austerity e sulla mancanza di soldi, che sputtanano governi – soprattutto di “centrosinistra” – che si sono dedicati al taglio sistematico del welfare e alla compressione di salari e diritti adoperando tutte le armi della retorica del “cambiamento” e della “competizione” mentre l’articolo 11 della Costituzione diventava carta straccia assieme alle parti della Carta che proclamano la rimozione delle disuguaglianze e la promozione sociale. La macchina della guerra non è solo bestialmente violenta ma parassitaria. L’industria militare è per sua natura un settore che dipende dalla commesse pubbliche e dunque incide sul meccanismo usurario del debito pubblico in nome del quale, da decenni, si tagliano risorse per la vita delle persone e se ne usurpano altre per la guerra. 64 milioni al giorno sono un’enormità: basti pensare che Renzi dice di aver armato tutto il casino della “riforma” costituzionale per risparmiare 57 milioni l’anno di spese per il Senato. L’occupazione militare di un lembo della Val di Susa costa 90mila euro al giorno e per un minuto di “missione di pace” in Afghanistan l’Italia spende 1800 euro, 79 milioni al mese. Dall’inizio di quella guerra sono andati in fumo oltre sei miliardi per massacrare civili e ingrassare l’apparato militar-industriale. E sono in arrivo i droni armati, strumento principe per le esecuzioni extragiudiziali: l’Italia sarà il terzo Paese della NATO (dopo USA e UK) a dotare di armamenti i propri velivoli senza pilota, di cui dispone da qualche anno. Recenti accordi internazionali e la decisione nel 2015 del Congresso USA di accogliere la richiesta italiana del 2012 consentiranno alle nostre Forze Armate di disporre fra qualche mese di droni armati. Senza dimenticare il coinvolgimento dell’industria nazionale in progetti di sviluppo del primo drone militare europeo (co-prodotto con Francia e Germania) la cui consegna è prevista per il 2025.
Il Rapporto rileva per il 2017 un aumento dei costi per il trasporto aereo di Stato (i cosiddetti ‘aerei blu’), che salgono a 25,9 milioni di euro, con un incremento di quasi il 50% rispetto ai 17,4 milioni del 2016. La quasi totalità di questa cifra, 23,5 milioni, sostiene l’Osservatorio, «è il costo del nuovo Airbus A340 della presidenza del Consiglio in forza al 31/o stormo dell’Aeronautica Militare (utilizzato solo una volta in un anno per una missione di imprenditori italiani a Cuba), il cui costo totale per otto anni (2016-2023) risulta essere di 168,2 milioni di euro (noleggio e assicurazione) più 55 milioni di carburante, per un totale di 223,2 milioni (27,9 milioni in media all’anno)». L’Osservatorio lamenta inoltre che, nonostante il Parlamento nel 2014 abbia votato una mozione di maggioranza che impegnava formalmente il governo a dimezzare il budget originario del programma per l’acquisto del supercaccia F-35, «il requisito della Difesa non ha subito alcuna modifica, se non una dilazione delle acquisizioni e il budget è anzi aumentato da 13 a 13,5 miliardi di euro». Il Pd al governo non ha la minima intenzione di rispettare lo sconcerto popolare per lo sciupio vistoso di denaro pubblico: sono stati firmati ordini per otto supercaccia e versati acconti per altri sette. Una parte degli F-35 – secondo il Rapporto – è destinato alla Trieste, la nuova supernave da 1.100 milioni della Marina che, ufficialmente, è stata impostata come unità di sostegno agli sbarchi con una vocazione per i soccorsi umanitari ma che è né più né meno di una portaerei.
A conti fatti i fondi reali sono aumentati del 21% nell’ultimo decennio. E, nel 2017, solo per l’acquisto di strumenti per le forze di cielo, di terra e di mare si impiegheranno 5,6 miliardi di euro, ossia 15 milioni al giorno.
Una corsa agli armamenti alimentata soprattutto dal ministero dello Sviluppo Economico, il gran benefattore delle aziende belliche nostrane foraggiate negli anni della Seconda Repubblica con contratti per quasi 50 miliardi di euro. Dal 1993 a oggi, al primo posto dello shopping di guerra da Leonardo, ex Finmeccanica, Fincantieri e Iveco) spicca Pier Luigi Bersani che ha firmato finanziamenti per oltre 27 miliardi, seguito da Federica Guidi con 8 miliardi, Claudio Scajola con 6,5 miliardi ed Enrico Letta con quasi 4.
Sul fronte del personale si lamenta la mancanza di soldi per la manutenzione e l’addestramento. Il 41% delle risorse finirà negli stipendi di 90 mila tra ufficiali e sottufficiali più 81 mila militari di truppa, una piramide grottesca, sanguinaria e costosissima. 32 mila marescialli e 4500 ufficiali in da smaltire in otto anni forse da smistare in altre amministrazioni, palazzi di giustizia o musei.