Marghera si guarda e si vede cambiata. Non è più di sinistra, non è più una potenza industriale, e nemmeno fucina di lotte. Resta quel consolatorio sguardo verso la laguna a sud-ovest
da Marghera, Enrico Baldin
Osservandola dalle prealpi trevigiane e bellunesi, nelle giornate più limpide, la si distingue chiaramente per quell’imponente raggruppamento di ciminiere dopo il quale inizia il mare. Marghera è diversa a seconda del punto di osservazione scelto, ma di certo in lontananza la si vede un po’come da anni viene raccontata in maniera spiccia e impietosa, intrappolandola in ciò che il suo nome evoca nel senso comune: fabbriche e inquinamento. La sua storia parte esattamente cento anni fa quando l’allora Presidente del Consiglio Boselli, il sindaco di Venezia Grimani e il presidente della SADE Volpi (quello del Vajont), istituirono la società che si occupò di costruire il porto e il centro residenziale. Una storia che dura da un secolo e che parla con molte voci. Una storia fatta di storie, alcune delle quali raccolte in un volume recentemente pubblicato da Edizioni Helvetia e intitolato Porto Marghera. Cento anni di storie (1917-2017), curato da Elisabetta Tiveron e Cristiano Dorigo.
Degrado, fabbriche, PM 10. E una città-giardino
«Marghera non è solo quella che tutti si immaginano». E’ questo il sunto del discorso che fa Alberto, 37enne che a Marghera è nato ma che a Marghera non vive più da un po’. Il suo è un racconto nostalgico, a tratti orgoglioso, anche se lavoro e amore lo hanno portato nell’alto trevigiano. E’ lui ad accompagnarmi tra i quartieri e le vie cittadine. Alcune zone non le vedeva da quando era ragazzo e non si sono modificate per nulla. Altre invece sono cambiate. «Si tende a credere che Marghera sia solo degrado, fabbriche, PM 10. E invece non è così». In ciò che dice c’è un certo senso di appartenenza. Le sue descrizioni sono minuziose, i ricordi emozionati e vissuti. Mi accompagna lungo tutta l’area portuale, contraddistinta da una toponomastica inequivocabile: via dell’elettricità, via della meccanica, via del commercio, via dell’idraulica, via dell’idrogeno, via dell’azoto. Tra elementi chimici e sostantivi del mondo dell’industria si snoda il petrolchimico, parte del quale è inaccessibile. Imperiosi fabbricati visibili anche in lontananza – alcuni dei quali dismessi – e imponenti ciminiere. Un grigiore che in Veneto non si vede tanto frequentemente nonostante la pianura veneta stia lasciando sempre più spazio al cemento. L’auto di Alberto però si dirige anche tra i parchi del centro cittadino contraddistinto da viali alberati eleganti e aree verdi estese. Anche queste non sono così frequenti in Veneto. La strada che porta verso Malcontenta e Fusina – quartieri compresi nella municipalità di Marghera rivolti a sud rispetto al Porto – fa far pace con l’area industriale: una tenue ed elegante vegetazione accompagna la terraferma fino all’acqua, affiancandosi a canali d’acqua percorsi da imbarcazioni. Pare impossibile trovarsi a poche centinaia di metri dal petrolchimico e viene anche un po’di invidia per quelle casette che alla sera vedono il sole tramontare accendendo i colori della laguna. «Qui è dove gli operai venivano a passare la domenica, e molte volte ci sono venuto anch’io» ricorda ancora Alberto. Un paio di camping, un noleggio auto, la fermata per il battello, piccoli ristoranti, il naviglio e la darsena: chi viene da fuori non lo sa, ma esiste un turismo, decisamente più contenuto e meno caotico, nel comune di Venezia ma oltre Venezia.
Marghera era stata concepita un secolo fa come “città giardino”. La grande area portuale doveva tornare a far splendere Venezia che dal punto di vista commerciale non aveva più lo smalto dei suoi tempi migliori. L’area residenziale invece doveva offrire nuove residenze alla città sull’acqua che non aveva più alcun margine di edificazione, ed era troppo densamente popolata dai veneziani che vivevano sovraffollati. A fare da contraltare alle centinaia di ettari di cantieri industriali e portuali che dovevano far risplendere l’economia veneziana, serviva un abitato verde, vivibile e spazioso. Questo almeno nell’idea del primo piano regolatore, in parte disatteso. La storia dell’abitato di Marghera è strettamente correlata a quella del suo porto. Furono pensati assieme, furono costruiti quasi assieme, e la loro vita è andata più o meno di pari passo. La distruzione del porto nel secondo conflitto mondiale si accompagnò a bombardamenti negli abitati circostanti, la ricostruzione delle attività produttive avvenne con la ricostruzione delle aree residenziali. L’esplosione dell’industria portò nuovi addetti e nuovi assunti che divennero nuovi abitanti di Marghera.
Che cosa resta del polo industriale
Che cosa è rimasto oggi di uno dei poli industriali più importanti d’Italia? Una decina di grosse aziende e diverse altre più piccole, circa diecimila addetti dei quali meno di cinquemila operanti nel manifatturiero. Numeri neppure da paragonare con quelli che negli anni ’70 vedevano ben oltre 40mila occupati. A far suonare le campane a lutto, specie negli ultimi due decenni, sono stati una serie di fattori: dalla delocalizzazione alla chiusura di cicli produttivi chimici, dalla scarsa lungimiranza di un capitalismo incapace di investimenti tecnologici alla mancanza di una politica di industriale.
Tuttavia la Marghera fatta di fabbriche e ciminiere, pur ridimensionata pesantemente, non è ancora morta. Anzi ci sono segnali importanti di vita. A febbraio l’industria vetraia Pilkington, dopo quattro anni di cassa integrazione e produzione a singhiozzo, ha deciso di investire venti milioni sul suo impianto di Marghera promettendo 50 nuove assunzioni entro fine anno. Una boccata di ossigeno dopo tante cessazioni. A confermare l’aria di inversione di tendenza anche l’annuncio di Fincantieri che nell’area portuale produce navi da crociera: a luglio preparava l’assunzione di una dozzina di nuovi addetti, a seguito di oltre un centinaio di assunzioni che si sono susseguite dal 2013. Per il picco produttivo registrato negli ultimi mesi però la Fincantieri avrebbe valutato le assunzioni tra i suoi dipendenti andati in pensione anziché tra “nuove leve” da cercarsi fra disoccupati e giovani. Le rappresentanze sindacali, comprensibilmente, si sono imbufalite denunciando la mancanza di programmazione da parte dell’azienda.
Vinyls 176 e timidi segnali di ripresa
Il tutto mentre nelle ultime settimane si procedeva all’abbattimento di una delle torri della Vinyls, azienda della chimica che a Marghera ha ospitato il ciclo del CVM e del PVC. Vinyls a Marghera (come a Ravenna e a Porto Torres), indebitata con ENI, ha chiuso lasciando per strada i suoi 176 addetti che per resistere le hanno provate tutte, fino ad arrivare all’occupazione simbolica del campanile di San Marco, ultimo disperato tentativo per sensibilizzare le Istituzioni. Prima c’era stata l’occupazione proprio di quella torre alta 160 metri: una lunga occupazione, una lunga lotta, non andata a buon fine. La storia di quella coraggiosa lotta è diventata uno spettacolo teatrale che si chiama Vinyls 176, mentre l’abbattimento di quella torre pare un sipario che si chiude su una storia di lavoro e di dignità come a Marghera ce ne sono state tante. Un sipario chiuso con difficoltà perché – quasi a evocarne e amplificarne l’aspetto simbolico – la torre non è crollata come da obiettivo degli artificieri resistendo alle cariche di tritolo: è servito un secondo tentativo avvenuto pochi giorni dopo. Ora i 10 ettari di terreni della Vinyls, bonificati e valutati tra gli 8 e i 10 milioni di euro sono in vendita e paiono aver trovato acquirenti. «Spero ci pagheranno i tanti stipendi arretrati che non abbiamo percepito» ha detto Nicoletta Zago, operaia ex RSU della Cgil, la principale animatrice di quella occupazione.
Dunque tra chiusure e cessazioni ci sono anche segnali di ripresa, timidi ma significativi. «Marghera non può perdere la sua vocazione industriale» dice Riccardo Colletti della Filctem CGIL. Il segretario dei chimici un mese fa, mentre si discuteva del progetto di edificazione di un nuovo palazzetto dello sport adiacente all’area industriale, ha lanciato un grido di allarme: «Non si può pensare ad un progetto che prevede zone ricettive per lo sport, per il commercio o residenziali senza dichiarare tacitamente la definitiva chiusura delle attività circostanti». Colletti ce l’ha col sindaco di Venezia Brugnaro, con il conflitto di interessi che lo riguarda (il palazzetto lo costruirebbe lui che è anche presidente della società di basket veneziana Reyer), ma soprattutto con la coltre di incertezza che incombe sull’area produttiva di Marghera. Perché quel palazzetto verrebbe costruito su terreni acquisiti da Brugnaro antistanti ad una raffineria con relativo parco serbatoi, e vicino alle aziende Petroven e Pilkington. Per la Cgil una implicita messa in discussione della vocazione industriale dell’area, per Brugnaro quelle della Cgil sono ingerenze politiche sulla programmazione urbanistica comunale. Come non bastasse, a rinfocolare le polemiche, l’accordo fra il Governo ed il Comune per rendere Porto Marghera nuovo terminal di attracco per le navi da crociera. Secondo l’accordo le navi sopra alle 96mila tonnellate attraccherebbero a Marghera, alleggerendo il traffico navale a Venezia. «Marghera ha vocazione industriale, non turistica» ha ribadito ancora Colletti. Neppure il comitato No Grandi Navi, che a giugno aveva istituito un referendum consultivo, è favorevole alla soluzione di Marghera.
Marghera, lacrime e sangue. Bortolozzo e gli altri
Marghera, lacrime e sangue. Le lacrime di tante fatiche, di tanto lavoro e di tante lotte. E anche di molti lutti. Un nome per tutti basterebbe a riassumere decenni di veleni, di malattie e di morti. Quello di Gabriele Bortolozzo, ambientalista e operaio. Una di quelle persone che fanno andare via a testa alta i propri figli e anche i propri conterranei, perché nei suoi anni ha fatto di tutto per denunciare l’inquinamento nelle fabbriche di Marghera. Raccolse dati, intraprese iniziative di boicottaggio, denunciò i responsabili. Tanta documentazione dalla quale partì il lavoro dei PM che stilarono denunce di strage, omicidio e lesioni – tutte a titolo colposo – ai danni di alcuni dirigenti di aziende del petrolchimico, Montedison e Enichem su tutte. 157 morti secondo i PM e l’inquinamento grave della laguna. Processo iniziato nel 1998, finito con l’appello del 2004: 5 colpevoli (un anno e mezzo di reclusione ciascuno) per omicidio colposo ai danni di un solo operaio esposto alle sostanze tossiche dopo il 1973, decine di prescrizioni. I familiari delle vittime gridarono vergogna, l’ambientalista Gianfranco Bettin (oggi Presidente della Municipalità) in lacrime. Gabriele Bortolozzo era già morto da anni. Per quei morti e per quei veleni nessuno pagò adeguatamente. Oggi il problema ambientale è una ferita mai chiusa. Non bastano i piani per le bonifiche, anzi. All’appello per completare le bonifiche dell’area portuale – inquinata da arsenico, cromo, nichel, idrocarburi – mancano ancora 250 milioni di euro, già lievitati a 300 milioni per quel teorema incontrovertibile della crescita dei costi delle opere pubbliche. Il ministro Galletti ha tirato fuori solo 72 milioni dopo la visita veneziana di fine gennaio. Altri 600 milioni sono arrivati da una cinquantina di aziende inquinatrici, a titolo di transazione. Anno 2017, le bonifiche devono essere ancora completate, la ferita è ancora aperta.
Com’è cambiata Marghera
Marghera è cambiata. E’ cambiata anche nella sua composizione sociale. Alla riduzione del numero degli addetti nell’industria è coinciso anche il decremento degli abitanti, passati dal 1982 ad oggi da 34632 ai 28326 del 2016. Oltretutto è la composizione demografica a parlar chiaro: gli ultra 65enni sono quasi il doppio, gli under 30 oggi sono meno della metà rispetto a 35 anni fa. Un esempio come tanti potrebbe essere quello del signor Pino, pensionato da diversi anni, una vita a lavoro dentro a Porto Marghera. «Questa città ormai non ha quasi più niente da dare» dice sconsolato davanti ad un caffè. Lui al lavoro ci ha lasciato sudore e fatiche, e ad occhio e croce anche un pezzo di cuore, visto il dispiacere che si nota nel suo racconto. I due figli di Pino lavorano da molti anni fuori da Marghera e dall’hinterland veneziano: «Qui per loro non c’erano opportunità». «A Marghera oggi mancano tante cose, prima di tutto il lavoro, poi molti servizi» commenta sotto i suoi baffi bianchi. Vive in un quartiere popolare, dal suo terrazzo indica le abitazioni dei suoi vicini di casa che sono perlopiù stranieri. «Tutta gente con cui non ho mai avuto problemi» tiene a precisare immediatamente, ma ci fa notare come le cose siano cambiate negli ultimi tempi. La municipalità di Marghera infatti – secondo i dati offerti dal servizio di statistica del comune di Venezia – è quella con il numero di stranieri residenti più alta: il 21% degli abitanti di Marghera, al primo gennaio 2016, erano stranieri. Dei circa 6000 stranieri uno su quattro proviene dal Bangladesh, mentre il 14% proviene dalla Romania. Gli est europei lavorano nell’edilizia o nell’indotto di Porto Marghera. Molti cinesi (sono poco meno di 500) gestiscono diversi esercizi pubblici, a Marghera come anche a Venezia. Una comunità chiusa, ben descritta dal film di Andrea Segre Io sono lì, ambientato nella vicina Chioggia, che racconta la storia di un difficile confronto tra i frequentatori di un bar e i cinesi che lo gestiscono. E poi c’è il gruppo di stranieri più folto, cioè quelli che tutte le mattine si spostano a Venezia essendo impiegati nel settore ricettivo e turistico, bengalesi in primis. «Marghera sta diventando il dormitorio di Venezia» – aggiunge ancora il signor Pino – «Molti tra quelli che abitano in città non ci lavorano, e così non la vivono. E’anche per questo che Marghera si spegne».
Il poliambulatorio di Emergency e il centro sociale Rivolta
A testimoniare il cambiamento del contesto sociale è anche una realtà che oramai a Marghera ha messo radici diversi anni fa. Emergency infatti ha avviato il suo progetto nello stabile arancione di via Varè, una laterale dell’arteria principale, via Fratelli Bandiera. Nei poliambulatori di Emergency da dicembre 2010 sono state effettuate circa 50mila prestazioni sanitarie. I beneficiari sono perlopiù stranieri, l’86%, provenienti soprattutto da Romania, Marocco, Senegal, Nigeria, Ucraina e Bangladesh. Qui Emergency si avvale del contributo di alcune decine di operatori sanitari volontari e di otto dipendenti assunti, quattro dei quali sono mediatori culturali. «Diamo cure mediche gratuite a persone altrimenti non in grado di ottenerle» dice Susanna che si occupa dei programmi di cura e assistenza sviluppati da Emergency in Italia. Stando a ciò che mi dice, la barriera linguistica e culturale è la prima causa a far sì che diverse persone si rivolgano a Emergency anziché alle strutture del servizio sanitario pubblico: «Il nostro compito è anche quello di reindirizzarli alle strutture sanitarie pubbliche attraverso sportelli di orientamento socio-sanitario». Ai poliambulatori di Marghera vengono effettuate visite mediche di base e specialistiche a persone prive di tessera sanitaria: dagli extracomunitari irregolari ai cittadini comunitari senza i requisiti per l’iscrizione anagrafica, fino a persone italiane senza fissa dimora. Non sempre però l’inserimento nei canali sanitari pubblici risulta semplice: «Le aziende sanitarie locali a volte sono impreparate alle mutazioni demografiche» ribadiscono da Emergency Italia.
A neppure mezzo chilometro di distanza dalla sede di Emergency sorge lo storico centro sociale Rivolta. Concerti, dibattiti, il costante impegno nei comitati come quello contro le grandi navi. Ma anche iniziative sociali dal basso: dai corsi di italiano gratuiti per stranieri al dormitorio per senzatetto, dal sostegno in strada ai senza fissa dimora fino all’ospitalità – in accordo con la Prefettura – di 21 stranieri richiedenti asilo, spostati dalla caserma di Cona (basso veneziano), dove ad inizio anno scoppiò la protesta dei profughi ammassati in condizioni pietose. A Marghera il disagio sociale c’è, ma non mancano strutture e organizzazioni che se ne prendono cura.
Il dottor Smith & Wesson
Mi guida sempre Alberto, che pur orgoglioso non si nasconde dietro ad un dito: certe zone non fanno venire voglia di passeggiarci di sera. Alcune più per quel che evocano. Palazzi alti 12 piani e case popolari costruite negli anni ’70: una delle zone proletarie della municipalità è il quartiere Cita. «Vedi qui? Quand’ero ragazzino giravano certi personaggi». All’epoca c’erano quelli invischiati nella Mala del Brenta, non tutti però son finiti in galera col maxi processo del 1994. Felice Maniero aveva i suoi fidati, e i fidati di Faccia d’angelo avevano a loro volta i loro fidati. Una rete di criminalità autoctona in parte spezzata dal carcere. Spacciatori, ricettatori e altri personaggi poco raccomandabili. Più di qualche volta erano avvenute sparatorie in quella che pareva essere una locale guerra di bande. Il medico di base del popolosissimo quartiere aveva un soprannome che era un programma: «Lo chiamavano tutti “Smith & Wesson” perché dopo esser stato costretto da un tossicodipendente armato a fargli una ricetta per il metadone aveva deciso di farsi il porto d’armi e di esibire nel suo ambulatorio un quadro della famosa marca d’armi americana. Fungeva da monito ai malintenzionati». Il Cita era un quartiere difficile, forse più in passato che oggi. Oggi invece a finire periodicamente nella cronaca locale per piccoli episodi di microcriminalità è il quartiere Rana, dalla parte opposta rispetto al Cita. Zone di confine, all’epoca seguite anche da parroci di confine e preti operai che coltivavano la missione del cristianesimo sociale. A darne testimonianza è la parrocchia del Gesù Lavoratore che si trova ad un paio di isolati dal quartiere Rana.
Ma se il disagio sociale esiste, c’è anche chi lo cavalca. Come in tutto il Veneto, il vento delle destre non pare aver risparmiato neppure Marghera, cittadina che di destra non è mai stata, anzi. Con tutti quegli operai Marghera non poteva che essere una roccaforte rossa, una circoscrizione sicuramente vincente per il PCI. Le cose però adesso non sono più esattamente come prima, e la retorica del degrado pare essere viscerale, come quella xenofoba. La mentalità leghista ha attechito anche nella rossa Marghera e i risultati si vedono. Alle regionali del 2015 Luca Zaia ha fatto man bassa anche in questa municipalità, mentre l’anno successivo, alle elezioni comunali che hanno visto Brugnaro vincere, il candidato della destra ha sconfitto l’ex magistrato Felice Casson figura di primaria importanza nei processi per le morti da CVM, PVC e uranio a Porto Marghera. Casson al ballottaggio ha perso in tutte e sei le municipalità veneziane. Anche, seppur di misura, in quella di Marghera.
Marghera si guarda e si vede cambiata. Non è più di sinistra, o almeno non lo è più come un tempo. Non è più una potenza industriale, o almeno non lo è più come un tempo. Non è più fucina di lotte in fabbrica e fuori. O almeno non lo è più come un tempo. Resta quel consolatorio sguardo verso la laguna a sud-ovest che fa mettere alle spalle tutto: mette alle spalle la disoccupazione e le bonifiche incomplete, i fabbricati dismessi e lo spopolamento. Il sole che scendendo riscalda la laguna ingiallisce canneti e campi e si riflette nell’acqua; battelli e barchette di pescatori fanno parte del panorama. Non pare neppure di stare a Marghera, non nella Marghera del senso comune intesa da tutti.