Come un ex ufficiale sovietico evitò la Terza guerra mondiale. Avrebbe meritato il Nobel per la pace, ma è morto dimenticato e ignoto ai più
Dove eravate il 26 settembre 1983? Che facevate dopo la mezzanotte, alle 00.14 per l’esattezza? Magari stavate al cinema, a un dopocena tra amici, o vi davate da fare. Oppure, semplicemente, dormivate. Ovunque foste, quella notte poteva essere l’ultima della vostra vita e non lo sapevate. Non l’avete mai saputo. Finché tanti anni dopo qualcuno ha parlato, raccontando cos’era successo quella notte di 34 anni fa. Questa storia ha dell’incredibile, e nonostante la grancassa scatenata dal circo mediatico che l’ha riscoperta in anni recenti, è ignota ai più. Ma andiamo con ordine.
Il mondo nell’‘83 conosceva un colpo di coda della guerra fredda, al suo apice nei decenni precedenti. Al Cremlino uno degli ultimi oligarchi prima del crollo ed ex agente segreto, Juri Andropov, profondamente malato, era convinto che l’America stesse per provarci sul serio, voleva cancellare l’Unione Sovietica dalla faccia della terra. Dall’altra parte del globo un attorucolo divenuto presidente, Ronald Reagan, faceva di tutto perché ci credesse. Giunto alla Casa Bianca, aveva dichiarato che l’Urss era l’impero del male e andava combattuto con ogni mezzo, varando uno scudo spaziale per proteggersi dai suoi missili che faceva il verso alla saga di Guerre stellari. Un po’ come il grande bluff fra Trump e Kim di questi giorni. Un gioco pericoloso che poteva far precipitare da un momento all’altro il mondo nel massacro, in una guerra globale totale tra due emisferi, con l’Europa in mezzo. Esattamente come oggi.
Provocazioni e scontri reali non erano mancati. Quello stesso settembre, il primo del mese, i sovietici avevano abbattuto un jet sudcoreano con 269 civili a bordo, tra cui un noto congressman antisovietico, nel corso di una battaglia nei cieli di Sakhalin tra jet russi e Usa mai raccontata e che nulla ha da invidiare al precedente di Ustica.
Insomma, il mondo della guerra fredda era per l’ennesima volta sull’orlo della guerra calda, con l’orologio della storia regolato sui tempi dell’apocalisse che stava per esplodere. Un gruppo di scienziati aveva pure calcolato i tempi su un apposito cucù: all’apocalisse mancavano (e mancano) pochi minuti. Se non ci fu, e quella fu una notte come tante per ognuno di noi, fu per caso e per un uomo che ci mise la mano fermando le lancette del disastro. Quell’uomo si chiamava Stanislav Evgrafovič Petrov ed è morto in un casermone alla periferia di Mosca, malato, in povertà e nel (quasi) anonimato in cui è vissuto. Misconosciuto al mondo che ha salvato, malgrado il circo mediatico si fosse impadronito negli ultimi tempi della sua storia e della sua vita, annichilita da quella notte cruciale.
Petrov era un tenente colonnello alla guida di un’unità militare composta da 140 specialisti deputata a monitorare, dalla sala comando di un sistema di sorveglianza spaziale definito Oko – occhio, in russo arcaico – ogni mossa balistica della superpotenza avversaria. Un ufficiale come tanti, educato nel culto dell’Urss e nell’odio verso l’Occidente capitalista, ma anche un analista, uno abituato a far di conto e pensare con la propria testa. Quella notte dové sostituire un collega malato e assunse il comando del bunker di Serpukhov, presso Mosca. Tutto filava liscio, finché pochi minuti dopo la mezzanotte il sistema segnalò il lancio di un missile nucleare dalla base di Malmstron, nel Montana (la stessa protagonista, nel ‘67, di uno dei casi più eclatanti nella storia dell’ufologia). Un missile, un altro, fino a cinque. Panico. Petrov avrebbe dovuto far verificare rapidamente il funzionamento del sistema e informare immediatamente i superiori gerarchici, via via fino al capo del Cremlino, malato. Se davvero era in corso un attacco missilistico nucleare da parte degli Usa, i russi avrebbero dovuto contrattaccare e avevano pochi minuti per farlo, prima del “first strike” che avrebbe azzerato ogni difesa e possibilità di reazione. Petrov non avvisò nessuno, rimase sulla sua poltroncina a far fare verificare su verifiche, mentre da terra non venivano conferme. Come un Oblomov qualsiasi non fece nulla, fidando in un errore del sistema. Evitò d’innescare un processo che poteva portare qualcuno, più in alto di lui, a premere quel bottone rosso che avrebbe segnato la storia dell’umanità. Invece fu l’uomo che fermò l’apocalisse, anche se mal gliene incolse.
Redarguito per non aver fatto il proprio dovere, pensionato anticipatamente e dimenticato in patria. Misconosciuto altrove, nonostante la ribalta mediatica e l’aver ricevuto qualche premio internazionale dopo la caduta del muro. Dalla sua storia Kevin Costner – di cui Petrov era ammiratore – ha tratto un lungometraggio nel 2011, The red button (Il bottone rosso). Un documentario su di lui, The man who saved the world (L’uomo che salvò il mondo), ha vinto il Woodstock prize all’omonimo festival nel 2014. Buon ultimo, Roberto Giacobbo, vicedirettore di Rai 2 e conduttore di Voyager, ha scritto L’uomo che fermò l’apocalisse (Rai Eri, 238 pagine). Nel suo stile piano e narrativo, Giacobbo ricostruisce la vicenda che poteva far scatenare la Terza guerra mondiale, ancora alla portata di tutti. Abortita sul nascere da un eroe per caso che avrebbe meritato il Nobel per la pace, se non fosse morto proprio nei giorni dell’uscita del libro, solo e in miseria in un bilocale alle porte di Mosca.