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L’uomo che vedeva leoni nella Bassa Reggiana

Ligabue a Palazzo Ducale di Genova, la vicenda umana e creativa di uno degli autori più geniali del Novecento italiano, da troppo tempo rinchiuso nell’etichetta di naïf

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Genova – Alzi la mano chi, tra chi ha superato gli “anta” non ricorda lo sceneggiato televisivo Rai del 1977 (il termine “serie” per indicare la narrazione televisiva non era ancora stato inventato). Una Rai uno che ancora tutti chiamavano primo canale e che aveva da poco sfondato il muro del colore   faceva conoscere ai suoi spettatori, nel profilo spigoloso di un giovane Flavio Bucci e per la sceneggiatura di Cesare Zavattini, la parabola esistenziale e artistica di uno dei più originali e negletti talenti artistici di sempre. Bizzarro, tormentato, insofferente, emarginato, rinchiuso in manicomio. A quell’Antonio Ligabue i cui travagli illuminavano i salotti televisivi degli italiani, Palazzo Ducale di Genova dedica, fino al prossimo 1° luglio 2018, una mostra antologica che ripercorre la vicenda umana e creativa di uno degli autori più geniali del Novecento italiano, da troppo tempo rinchiuso nella semplicistica etichetta di naïf.

L’esposizione, che prende semplicemente il titolo di “Antonio Ligabue”, è curata da Sandro Parmiggiani e Sergio Negri e prodotta e organizzata da ViDi con la Fondazione Antonio Ligabue di Gualtieri (RE) in collaborazione con Comune di Genova e Palazzo Ducale Fondazione per la Cultura. E propone, nella Loggia degli Abati, 80 opere tra dipinti, sculture, disegni e incisioni in un percorso espositivo che si snoda tra i due poli principali in si sviluppa l’universo creativo di Ligabue: gli animali, selvaggi e domestici, e i ritratti di sé. Tra gli animali abitatori delle foreste e delle savane si trovano alcuni dei maggiori capolavori, come Tigre reale, realizzato nel 1941 quando Ligabue era ricoverato nell’Ospedale psichiatrico San Lazzaro di Reggio Emilia; tra quelli delle campagne, le due versioni di Cani da caccia con paesaggio; c’è poi l’impressionante galleria di autoritratti, come i dolenti Autoritratto con berretto da motociclista del 1954-55 e Autoritratto del 1957. Non mancano altri straordinari dipinti, dai paesaggi bucolici, alla Carrozzella con cavalli e paesaggio svizzero ad alcune versioni delle Lotta di galli, ad Aquila con volpe della fine degli anni quaranta, alla Vedova nera con volatile e alla Testa di tigre della metà degli anni cinquanta, fino alla Crocifissione.

Ligabue dipinge animali domestici inseriti in paesaggi in cui giustappone le terre piatte della Bassa reggiana, dove visse dal 1919 alla morte nel 1965, e i castelli, le chiese, le guglie e le case con le bandiere al vento sui tetti ripidi della natia Svizzera. Ma anche gli animali della foresta e del bosco: tigri, leoni, leopardi, gorilla, volpi, aquile, colti nel momento in cui stanno per piombare sulla preda, con un’esasperazione di stampo espressionista. In una rappresentazione della ferocia della vita che si estende in qualche modo agli autoritratti, nei quali Ligabue colloca in primo piano un volto che esprime il dolore e la fatica di vivere ma che chiede, almeno per una volta, di essere guardato. “Questi autoritratti – commenta Sandro Parmiggiani, curatore della mostra – dicono tutta la sofferenza dell’artista. Ne sentiamo quasi il muto grido nel silenzio della natura e nella sordità delle persone che lo circondano. Quando perduta è ogni speranza, ormai fattasi cenere, il volto non può che avere questo colore scuro, fangoso, questa sorta di pietrificazione dei tratti che il dolore ha recato con sé e vi ha impresso”.

 

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