Dopo l’intervista di Saviano a Maniero. Perché l’esigenza di tornare indietro e di tracciare una agiografia di Faccia d’angelo?
di Enrico Baldin
Esistono le mafie di serie A e quelle di serie B. Non ci si stupisca, perché è proprio così. La mafia del Brenta – nessuno lo dice – è da tutti trattata come mafia di serie B. Forse perché, a differenza delle altre, è una storia considerata finita, forse perché non ha provocato il numero di morti delle mafie “tradizionali”.
Ma è una mafia di serie B anche per come viene raccontata in quelle (poche) volte in cui ci si prende la briga di tentare di dire che cosa sia stato quel sodalizio criminale. Lo ha fatto qualche sera fa Roberto Saviano in una trasmissione Kings of crime da lui condotta, in cui ha intervistato lungamente il boss pentito, Felice Maniero, oggi a piede libero sotto altro nome.
Una intervista a dir poco pietosa in cui l’ex boss ha avuto la possibilità di dipingere sé stesso – in una libertà quasi assoluta e in quasi totale assenza di contraddittorio – come capo dal profilo umano, che rispetta regole e codici d’onore. Un bandito romantico in una banda che commetteva omicidi solo “sistemici”, come si dice in gergo. Maniero ammazzava solo chi metteva a repentaglio l’esistenza della sua banda, con tutti gli altri era magnanimo.
Un’enormità di balle facilmente confutabili, un’occasione persa. Perché di tanto in tanto Maniero torna sui suoi passi (ha scritto anche un’autobiografia) e di occasioni per raccontarsi “vendendosi bene” ne ha avute parecchie, grazie soprattutto alla disponibilità di giornalisti che non lo hanno affatto trattato male.
Ma allora a che cosa serve tutto questo? Perché l’esigenza di tornare indietro e di tracciare una agiografia di Faccia d’angelo? Difficile comprenderlo. A maggior ragione se si permette a Maniero di dare lezioni di antimafia, di politica e di società, facendolo diventare addirittura un opinionista, un osservatore della realtà dei giorni nostri.
Ma Maniero qualcosa di interessante l’ha detto e in molti hanno la convinzione che dal suo pentimento moltissime cose siano rimaste da dire. Per esempio che ne è del suo incalcolabile patrimonio dopo l’arresto per mano di Maniero stesso dell’ex cognato che ne faceva da fiduciario? Chi sta gestendo oggi i suoi “averi”? «Ci sono indagini in corso, non posso parlare» ha risposto sibillinamente Maniero.
E poi c’è tutta una parte che dal maxiprocesso finì in un binario sostanzialmente morto, quello dei rapporti con forze dell’ordine e istituzioni. Perché se è vero che il maxi processo ha portato alla sbarra anche qualche uomo dello stato a libro paga del boss (da chi lo fece evadere a chi gli passava informazioni sulle indagini fino a chi chiudeva un occhio sulle sue attività malavitose), è anche vero che Maniero incontrò in tempi sospetti uomini della magistratura e dei servizi segreti. Dando l’idea dell’esistenza di una sorta di impronunciabile trattativa stato-mafia.
Sono alla luce del sole, quindi, i pesci piccoli, apparentemente autonomi, quelli che per cinque milioni di lire al mese e qualche aiutino su qualche operazione di polizia davano una bella mano al boss, che da parte sua poteva corrompere chiunque. Nel sommerso invece, forse, c’era anche qualcosa di più. Forse, perché le indagini non sono riuscite ad andare fino in fondo. Qualcuno però dovrà pur spiegare quelle rapine di opere d’arte e reliquie religiose coi loro consecutivi rinvenimenti da parte delle forze dell’ordine. Maniero lo ha fatto capire abbastanza chiaramente: il rinvenimento del mento di sant’Antonio, dei quadri della galleria Estense di Modena, delle spoglie di Santa Lucia, servivano come contropartita per scarcerazioni o per far alleggerire le misure cautelari nei confronti di Maniero che aveva bisogno di agire liberamente. Ci sono state delle trattative? Erano coinvolti apparati dello Stato?
Non è mai troppo tardi per saperlo. Perché questa non è una storia di serie B, e merita di essere raccontata e indagata degnamente. Della criminalità come avanspettacolo, invece, non si sente davvero il bisogno.