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Quando il gioco di ruolo si fa nazi

Giochi di ruolo, un maestro ne inventa uno in cui un alunno dalla pelle nera è discriminato. Gli sembra una bella idea. Invece è sbagliato.

Il gioco ruolo si fa “nazi”. La “maldestra” simulazione della discriminazione messa in atto da un maestro nella sua classe nei giorni scorsi, fa tornare alla ribalta i giochi di simulazione e di ruolo come importante strumento pedagogico e didattico. Ma anche la loro intrinseca pericolosità se non vengono gestiti in modo adeguato.

Un esperienza personale nei giochi di ruolo. In tempi non sospetti

Partecipai al mio primo gioco di ruolo sul finire degli anni ’80 del secolo scorso.

Ero al mio primo seminario internazionale, che si svolgeva a Strasburgo ed era ospitato dal Centro Europeo della Gioventù del Consiglio d’Europa.

Succedeva all’inizio del mio percorso nel volontariato e nella cooperazione internazionali.

Il muro di Berlino doveva ancora cadere e vivevamo in una Europa più piccola, in cui i sogni, le idee e l’impegno politico per la pace, la giustizia sociale, i diritti umani ed il dialogo tra culture ancora valevano di più di una moneta unica.

Il tema del seminario era “Popoli oppressi e dimenticati” e partecipavano anche rappresentanti di minoranze perseguitate, come i Saharawi del Sahara Occidentale, Palestinesi ed Est-Timorensi.

Giochi di ruolo estremi, cosa successe

Fin dall’inizio, l’attività, della durata di una settimana, prese una strana piega.

Percepivo piccoli segnali, come tempistiche che mi facevano arrivare tardi alla mensa comune, con la conseguenza di avere meno scelta e meno quantità di cibo. Oppure, attività da cui ero escluso o, altre, a cui ero obbligato, tipo rimettere in ordine e ripulire la sala, mentre gli altri potevano scegliere.

Mi accorgevo anche che queste differenze di trattamento, oltre a me, toccavano sempre ad altri nel gruppo dei partecipanti, composto da una trentina persone.

Circa la metà subivano il mio stesso trattamento.

La cosa era così evidente che cominciammo a parlarne tra di noi “esclusi”, a fare gruppo a parte e a cercare di organizzarci per capire cosa stesse accadendo.

Chiedevamo quindi ragione di questo comportamento agli organizzatori e agli altri partecipanti. Il tutto in un contesto in cui le lingue madri erano almeno 10 e quella veicolare l’inglese, all’epoca non proprio conosciuta bene da tutti. Compreso me, che conoscevo, piuttosto, il francese.

Muro di gomma. Tutto continuò, infatti, con le stesse modalità, anzi in un crescendo di ulteriori, piccole, quotidiane, regolari, sopraffazioni.

L’epilogo

Tutto fino all’ultimo giorno, quando scoprimmo quando era già concluso, che era stato organizzato un party di chiusura del seminario dal quale eravamo stati esclusi.

Alcuni del gruppo di chi era stato escluso perse allora la pazienza ed iniziò a litigare con gli organizzatori e gli altri partecipanti, fino quasi a venire alle mani.

Solo allora, la rivelazione: avevamo preso parte ad un esperimento sociale.

Ci avevano diviso in 2 gruppi.

Uno di privilegiati e uno di esclusi.

I privilegiati sapevano di esserlo e gli era stato chiesto di tenere il gioco.

Mentre noi, gli esclusi, eravamo all’oscuro di tutto.

Si trattava, quindi, di qualcosa a metà tra un gioco di simulazione e un gioco di ruolo.

Gioco di ruolo e gioco di simulazione, le regole

La differenza stava nel fatto che una parte dei giocatori ignorasse di prendere parte ad una simulazione e che avesse in essa un ruolo.

La discriminazione che avevamo subito era certamente molto soft, ma aveva comunque portato qualcuno all’esasperazione.

Questo, nonostante la simulazione fosse stata condotta da animatori esperti e secondo le linee guida dei giochi di simulazione e di ruolo redatte dal Centro Europeo della Gioventù del Consiglio d’Europa, insieme ad un Network di Ong contro il razzismo.

Tutte le regole. Tranne una, fondamentale: che tutti fossero consapevoli di partecipare ad un gioco.

L’esito, anche se su una scala molto più contenuta, ricorda quello della prigione di Stanford, conosciuto anche come esperimento Zimbardo.

Cosa mi è rimasto di questo gioco di ruolo

Quello che mi resta di questa esperienza, a distanza di 30 anni, è la consapevolezza pratica di cosa sia la discriminazione, dei meccanismi sottili che utilizza e che la innesca e di come può essere operata con semplicità all’interno dei gruppi

Per fortuna, allora, a partecipare erano giovani donne e uomini, under 35, di cultura valutata sopra la media e considerati predisposti ed allenati al dialogo interculturale.

Anche, però, di come un’esperimento sociale possa facilmente andare fuori controllo con conseguenze inaspettate e potenzialmente pericolose.

Soprattutto se essa matura in un contesto socialmente e culturalmente degradato: ogni riferimento a persone e fatti reali è puramente casuale.

La discriminazione che ho subito nel gioco di ruolo è ancora un trauma

Ancora oggi, dopo tanti anni, sento dentro me un certo rancore nei confronti degli organizzatori dell’esperimento per essere stato scelto per essere messo nel gruppo dei discriminati.

Le domande che ricorro sono: perché proprio me e non un altro tra gli esclusi? Perché non mi hanno messo tra i privilegiati? Quale differenza in me hanno scelto, o è stato solo casuale?

A distanza di così tanto tempo non potrò certo avere risposte.

Mi accorgo, però, che, ponendomi questi interrogativi, da una parte, mi immedesimo in chi subisce le discriminazioni, e, dall’altra, vorrei far parte dei privilegiati.

Senza considerare, che, in questo caso, sarebbe qualcun altro, al mio posto, a subire il trattamento discriminatorio.

Un atteggiamento che sottintende, oltretutto,  la disponibilità a fare intelligenza con il “nemico“, gli organizzatori, per ottenere dei vantaggi personali, ignorando i miei principi, a scapito di altre persone che hanno i miei stessi diritti.

Il senso dell’esperienza del gioco di ruolo

Questo mi fa riflettere su come sia sottile il filo che ci separa dalla discriminazione, come attori attivi o passivi, e sul fatto che il privilegio sia una leva importante nello spingerci a ignorare gli atteggiamenti discriminatori attuati nei confronti di altre persone e a come sia facile non indignarci per difendere il nostro personale rendiconto di privilegi.

In questo la natura umana è davvero vile.

E tutti noi, chi più, chi meno, navighiamo in questo mare di viltà, difendendo i nostri privilegi a scapito di chi è discriminato.

Difendendo i nostri privilegi senza un senso di comunità. Perché solo i diritti di ogni individuo hanno senso, al di là di ogni differenza sociale e culturale e delle infrastrutture che ci hanno imposto e ci impongono.

Perché, poi, potremmo essere noi i prossimi ad essere discriminati. Avere coscienza di questo non ci fa onore, ci fa egoisti ed ipocriti, ma è la realtà con cui dobbiamo fare i conti e da cui dobbiamo partire per cambiare.

La cronaca di questi giorni

Tornando al fatto di cronaca in apertura, ammesso che il maestro abbia agito in buona fede – qualche dubbio ce l’ho, visto come hanno raccontato i fatti i genitori del bambino attore passivo della discriminazione – forse non era del tutto consapevole delle conseguenze del gioco di ruolo che messo in scena.

L’impressione è, infatti, che il bambino fosse consapevole di essere oggetto di discriminazione e si sia prestato, forse non del tutto consapevolmente rispetto al significato, ma per abitudine a rivestire questo ruolo, a fare il discriminato. Questo dice molto.

Fare questo tipo di gioco con dei bambini è rischioso, molto di più di quanto sia con dei giovani adulti. Come è stato nella mia esperienza. Perché sono ancora in età evolutiva, possono essere condizionati, e, comunque la si metta, una simulazione di quel tipo ha inevitabilmente dei contenuti, in qualche misura, violenti. Che sono pericolosi se non correttamente gestiti.

Soprattutto, il maestro ha commesso l’errore di far interpretare il discriminato ad un bambino con il colore della pelle nero, quando invece avrebbe potuto farlo fare a qualsiasi altro alunno della sua classe, con esattamente gli stessi risultati in termini pedagogici e didattici.

In questo modo ha stigmatizzato il colore della pelle come una diversità a cui è attribuita una discriminazione, invece di evidenziare alla sua classe come nessuna differenza giustifichi atteggiamenti discriminatori.

Io non so cosa abbia lasciato questa esperienza ai suoi alunni.

Forse la stessa sensazione che provo io a distanza di anni per l’esperienza che ho vissuto.

Potrebbe, però, essere peggio, visto che al “discriminato” e ai suoi compagni di classe il maestro ha offerto la percezione reale del fatto che il colore della pelle sia un motivo per discriminare. Un messaggio irricevibile.

E questo, anche al netto delle buone intenzioni, non mi sembra davvero un buon risultato.

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