Processo Cucchi, terminato il controesame di Francesco Tedesco iniziano le deposizioni dei testimoni della difesa dei carabinieri
A metà mattinata Ilaria scrive su fb: «Voglio ringraziare l’avv. Lampitella, difensore di D’Alessandro, che oggi ci ha fornito un ulteriore e rilevante elemento. Stefano in auto con i carabinieri al rientro dalla stazione Casilina avrebbe detto “Io muoio ma a te levano la divisa”. Stefano era appena stato picchiato e stava proprio male. E dopo sei giorni è morto».
Poco dopo, una stretta di mano tra Ilaria e il teste chiave, Francesco Tedesco, imputato al processo sulla morte di Stefano Cucchi. Quasi dieci anni dopo l’omicidio al centro di questo processo, in aula arriva il gesto di riconciliazione tanto atteso. Il vice brigadiere, alla sbarra per omicidio preterintenzionale, è stato il primo a parlare di pestaggio accusando, nel luglio 2018, gli altri due militari coimputati. La fine del controesame, che era iniziato l’8 aprile, ha visto ripercorrere le fasi del pestaggio avvenuto, secondo l’accusa, nella notte tra il 15 e il 16 ottobre. «Dopo il primo schiaffo, Stefano non ha avuto il tempo di lamentarsi, non ha gridato. E’ caduto in terra stordito e non ha urlato neppure dopo il calcio che gli è stato sferrato a terra. Poi, quando l’ho aiutato a rialzarsi, gli ho chiesto come stava e lui mi ha detto di stare tranquillo perché era un pugile. Ma si vedeva che non stava bene», ha spiegato Tedesco interrogato dai legali della difesa puntando ancora una volta il dito contro i suoi due colleghi, Raffaele D’Alessandro e Alessio Di Bernardo. Nel corso dell’udienza inoltre, Maria Lampitella, legale di D’Alessandro, ha chiesto a Tedesco se ricordasse la frase pronunciata da Cucchi in macchina dopo il pestaggio, “Io muoio, ma a te tolgono la divisa”. Tedesco ha smentito la circostanza, ma per Ilaria Cucchi questo resta un passaggio significativo. Davanti alla Corte d’Assise, Tedesco ha anche ricordato le difficoltà che lo avrebbero spinto al silenzio per così tanto tempo: «D’Alessandro e Di Bernardo si sono nascosti per dieci anni dietro le mie spalle. A differenza mia, non hanno mai dovuto affrontare un pm. L’unico ad affrontare la situazione e ad avere delle conseguenze ero io. In tutti questi anni l’unica persona che aveva da perdere ero io, ero l’unico minacciato – ha spiegato il vice brigadiere – cominciai a maturare la convinzione di dover parlare il 30 luglio 2015, quando fui convocato dal pm». E proprio in vista della possibile richiesta di rinvio a giudizio da parte della procura di Roma nei confronti degli otto carabinieri accusati dei depistaggi messi in atto anche da ufficiali dell’Arma, i tre agenti della Polizia penitenziaria che sono stati assolti al primo processo hanno annunciato che si costituiranno parte civile in un eventuale altro dibattimento. A rischiare il rinvio a giudizio sono, tra gli altri, il generale Alessandro Casarsa, all’epoca comandante del gruppo Roma, e il colonnello Lorenzo Sabatino, ex capo del nucleo operativo dei carabinieri di Roma.
Dopo Tedesco è stata la volta dei primi testi delle difese: due carabinieri, padre e figlio, Enrico e Sabatino Mastronardi. Il primo è stato il comandante, a Tor Vergata, di Mandolini (uno dei cinque carabinieri sotto processo) negli anni precendenti all’arrivo di questi a Roma Appia. Suo figlio era il vicecomandante della stazione di Tor Sapienza, quella dove Stefano fu portato dopo la perquisizione e il pestaggio a Roma Casilina, stazione in cui si doveva effettuare il fotosegnalamento. Mastronardi junior incontrò Cucchi per un paio di minuti mentre risaliva dal sotterraneo delle camere di sicurezza. Gli pare di ricordare che salisse le scale «autonomamente», almeno, gli ultimi quattro gradini. Ne ricorda le occhiaie, «l’estrema magrezza», lo stare come ingobbito sotto il cappuccio della felpa. «Quella mattina, se non sbaglio, gli offrii anche un caffè – ha detto – lo incontrai davanti al distributore automatico del caffè, mentre i colleghi lo avevano prelevato dalle camere di sicurezza per condurlo in udienza. Lo vidi precisamente per un minuto e 46 secondi. Sono certo del tempo in quanto scrissi alla Lavazza per sapere quanto tempo le macchinette impiegano per erogare i caffè».
Padre e figlio, tuttavia, hanno sostenuto di non aver mai parlato tra loro di quello che accadde, tutt’al più hanno commentato gli articoli di stampa. Hanno voluto fornire alla corte l’impressione che quella vicenda non li riguardasse più di tanto. Però, secondo la testimonianza di altri due carabinieri, Riccardo Casamassima e Maria Rosati, Mandolini si sarebbe confidato proprio con Mastronardi senior. «Mandolini – ha detto in aula la Rosati a maggio dell’anno scorso – disse che era successa una cosa brutta, un casino con un ragazzo che si chiama Cucchi, lo avevano massacrato», che stavano cercando «di scaricarlo, ma non se lo voleva prendere nessuno». Il maresciallo, ormai luogotenente in pensione, ha negato tutto con forza. Dice di aver visto Mandolini solo dopo il 30 ottobre (Cucchi fu arrestato la notte fra il 15 e il 16 e morì il 22 ottobre 2009) e che il maresciallo gli avrebbe fatto cenno esclusivamente del fatto che la penitenziaria – all’epoca sotto accusa – voleva coinvolgere i carabinieri, «ci vogliono tirare per la giacca». «Preciso che nella circostanza Mandolini mi disse che la Polizia penitenziaria stava cercando di scaricare la responsabilità sui Carabinieri che avevano proceduto all’arresto. Ricordo, inoltre, che lui stesso mi disse anche che al momento della perquisizione la madre di Cucchi era molto arrabbiata con il figlio, dicendo “non lo voglio più vedere”. Nella circostanza Mandolini mi disse anche che il generale Tomasone, all’epoca Comandante del Provinciale di Roma, aveva tenuto una riunione per avere particolari in relazione alla vicenda». Il luogotenente Mastronardi ha tenuto comunque a precisare che Mandolini «non mi disse mai, nel modo più assoluto, che Cucchi era stato pestato dai carabinieri. L’ho detto e lo dirò finché campo. Altrimenti avrei trascinato la cosa davanti all’autorità competente.
Buona parte della sua testimonianza è stata dedicata a restituire l’immagine di un Casamassima invasato, che gli era stato affidato per rimetterlo in carreggiata ma che lui aveva dovuto destinare a compiti di istituto. Suo figlio aggiungerà che Casamassima «era già un soggetto particolare». Però la querela che padre e figlio hanno sporto contro di lui è stata archiviata dallo stesso Musarò, pm di questi processi, con 12 pagine di motivazioni. Anche il ritratto di Mandolini, che nella penultima udienza era stato dipinto come un tipo che voleva mettersi in vista per il numero di arresti eseguiti, s’è arricchito di particolari: sarebbe un «esibizionista», uno che cercava «l’encomietto».
«Escluso nella maniera più assoluta di aver saputo che Stefano Cucchi era stato pestato; avrei fatto immediatamente un’informativa di reato. Mai nessuno me lo ha detto, e non ho mai riferito ad alcuno questa circostanza», dirà infine, ricalcando le orme del padre, il maresciallo Sabatino Mastronardi che però ha ammesso che il caso Cucchi era oggetto di «chiacchiere da bar»: «Non posso escludere che ci possano essere state conversazioni a cui sono stato presente e che qualche collega abbia ipotizzato che i colleghi di Roma Appia avessero pestato Cucchi».
Prossima udienza, il 17 maggio (una intermedia è stata cancellata per l’astensione già proclamata dall’avvocatura per i primi del prossimo mese); saranno protagonisti ancora testimoni citati dalle difese degli imputati. Poi, a fine mese o al massimo all’inizio di giugno, ci sarà l’udienza nella quale compariranno i periti incaricati dal gip in sede d’incidente probatorio, aprendo così l’importante fase dibattimentale dedicata alle argomentazioni mediche.