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Carcere, non archiviare la morte di Eneas

Anas Zamzami s’è impiccato 4 anni fa in una cella a Pesaro ma doveva essere salvato. La lunga battaglia contro i tentativi di archiviare le indagini

Lo chiamavano Eneas ma il suo nome era Anas Zamzami. E’ morto il 25 Settembre 2015, a 29 anni, ma la sua morte, come anche la sua vita, non interessa a nessuno anche se chiama in causa tutti. Perché Eneas è stato trovato impiccato in una cella del carcere di Pesaro deve scontava un anno per falsa identità e resistenza a pubblico ufficiale. Un reato di quattro anni prima per cui il codice penale (art.199/2010) prevede gli arresti domiciliari per pene inferiori ai 18 mesi.

«Un suicidio annunciato», dice Fabio Anselmo, il legale ferrarese che segue anche molti altri casi di malapolizia. E’ una lunga marcia verso la prescrizione, da parte della procura di Pesaro, che il gip e Anselmo provano ad arginare da tre anni.  L’ostinazione di Anselmo e dei familiari di Anas non è un pretesto giuridico, «ma al contrario rappresenta il fermo tentativo di difendere un diritto che dovrebbe essere costituzionalmente garantito, ma che, nel caso di Zenzami Anas, è stato palesemente sacrificato per negligenza e/o mera superficialità da parte di coloro che avevano il dovere istituzionale e professionale di tutelarlo. La necessità di severo controllo sulle scelte operate dal personale penitenziario che ha avuto in custodia il detenuto Zemzami, fin dal suo ingresso in carcere, ma soprattutto nell’ultimo periodo di vita sino al tragico epilogo, è stata segnalata più volte dal gip proprio per evidenziare la singolarità del caso in esame e la delicatezza delle questioni trattate».

L’evento mortale, insomma, poteva dirsi prevedibile e vi erano tutti gli elementi idonei per sottoporre a severo vaglio giudiziario la condotta omissiva del personale che ha avuto in cura e in custodia negli ultimi giorni di vita il giovane Anas Zemzami. E di fronte delle reiterate disposizioni del Gip circa la necessità di effettuare un accertamento tecnico medico-legale in contraddittorio tra le parti, l’Ufficio della Procura ha sempre eluso tali ordini, non effettuando l’iscrizione nel registro degli indagati delle persone che possono ritenersi responsabili della morte di Anas Zemzami. E così il procedimento si trova inevitabilmente in una fase di stallo, non potendo il Giudice emanare un provvedimento di imputazione coatta.

Il 28 marzo scorso la pm Tedeschini ha formulato per la quarta volta richiesta di archiviazione al Gip sostenendo di non aver avuto dalle indagini «alcun utile esito rispetto alla possibilità di dimostrare che vi siano responsabilità, penalmente rilevanti e riconducibili a determinati soggetti, nella vicenda suicidiaria in esame». il fascicolo risulta essere ancora contro ignoti anche se si sanno ufficialemente i nomi di tutti i soggetti «coinvolti e quindi indagabili». Una lunga memoria di Anselmo ripercorre la storia della permanenza in carcere di Eneas e quella dei quattro tentativi di archiviazione che hanno eluso «le reiterate richieste di accertamento tecnico medico legale in contraddittorio tra le parti, seppur disposte dal Giudice, ed inspiegabilmente totalmente ignorate dal Pubblico Ministero procedente».

E’ una storia che è andata storta fin dall’inizio ad Anas Zemzami, nato in Marocco nel 1986.

Il 15 aprile 2015 veniva tratto in arresto dai Carabinieri di Urbania (PU) a seguito di sentenza divenuta irrevocabile il un paio di mesi prima, che lo condannava alla pena di 1 anno di reclusione per aver fornito false generalità ad un controllo di polizia e resistenza a pubblico ufficiale. Divenuta definitiva la sentenza, la Procura di Roma emetteva ordine di esecuzione e contestuale sospensione il 22 ottobre 2013, concedendo al condannato il termine di 30 giorni per chiedere le misure alternative alla detenzione ma l’ordine di esecuzione veniva notificato, il 13 novembre, ad un avvocato del Foro di Roma il cui nome non risultava indicato nel provvedimento di esecuzione rendendo impossibile la richiesta di misure alternative alla detenzione.

Nei quattro mesi dietro le sbarre di Pesaro, Anas ha «in ogni modo posto in essere condotte e comportamenti indicativi della massima avversità con il sistema carcerario», si legge nella memoria, ma in Procura si sostiene che «tale atteggiamento non abbia destato fondati sospetti di allarme sia nel personale penitenziario, che nella stessa Magistratura di Sorveglianza».

Il diario clinico rivela invece che Zemzami aveva più volte manifestato un’assoluta incompatibilità con il regime detentivo. In poco più di 4 mesi di detenzione aveva messo in atto episodi di autolesionismo, negava quotidianamente di farsi visitare, non si alimentava in alcun modo, rifiutando acqua e cibo e qualsiasi tipo di terapia farmacologica, era stato disposto nei suoi confronti il regime di Grande Sorveglianza (cui risultava sottoposto anche il giorno del suo decesso), temeva di essere avvelenato e mentiva ripetutamente su passati da assuntore di sostanze, era agitato, molto, e per tre volte, dal 7 agosto, sarebbe stato ricoverato a causa del forte stato di anoressia, disidratazione e steatosi epatica;

Diagnosi: psicosi paranoide che faceva disporre l’osservazione psichiatrica presso la sezione Osservandi dell’Istituto di Ascoli Piceno. Il 5 settembre il primo tentativo di impiccarsi.

«Con tale excursus clinico ci si chiede come possa ritenersi non prevedibile, non previsto ed inevitabile l’evento letale», commenta l’avvocato Anselmo.

Che l’amministrazione fosse al corrente del pericolo, però, si capisce anche dai provvedimenti adottati nei confronti del detenuto. Vale la pena stralciare dalla memoria:

«in maniera perentoria e continuativa nel corso degli ultimi tre mesi di vita del detenuto si legge “necessita di grande sorveglianza” (02/06/2015), “è necessario un ricovero in un ambiente idoneo alla valutazione e alle cure…Si richiede inoltre una Grande Sorveglianza con giri attenti e frequenti” (29/07/2015), “si richiede trasferimento in tempi brevi di Zemzami Anas in un Centro di Osservazione Psichiatrica” (30/07/2015), “si raccomanda un’attenta sorveglianza” (03/08/2015), “si sollecita l’invio presso struttura psichiatrica” (04/08/2015), “necessita di sorveglianza a vista sino a visita psichiatrica in quanto sussistono le condizioni per gesti auto lesivi e/o autosoppressivi” (18/08/2015), “ritengo utile…un trasferimento in altro istituto penitenziario, data l’incompatibilità dimostrata dal detenuto per questo ambiente carcerario” (19/08/2015), “si consiglia massima sorveglianza” (31/08/2015), “si ribadisce grandissima sorveglianza con frequenti controlli diurni e notturni” (05/09/2015)».

Quel 25 settembre per Anas era stato dunque disposto “il regime di vigilanza intensificata della grande sorveglianza…con controlli frequenti (ogni quindici minuti) … l’addetto alla sorveglianza avrà cura di verificare costantemente che lo spioncino di controllo del locale servizi igienici sia libero da ogni ostacolo che possa in qualsiasi modo ostacolarne il controllo”; nelle motivazioni si ricordava che era «un soggetto con disturbo paranoide della personalità in trattamento farmacologico appena dimesso dal centro osservandi di Ascoli Piceno con attestazione di condizioni psicofisiche discrete». E, alla luce dei precedenti episodi di autolesionismo si vietava il possesso di oggetti con cui potesse danneggiarsi.

Ebbene, dal verbale del 17 novembre2015 redatto dall’Agente Scelto di Polizia penitenziaria che lo aveva in custodia si legge: “il giorno 25.9.2015 ero comandato in servizio nella prima sezione dalle ore 18 alle ore 24 e sono arrivato in sezione alle 18.40 circa dopo aver cenato. Mi sono informato sulle consegne dal collega smontante il quale mi riferiva che era rientrato il detenuto Zemzami, che avevo avuto modo di conoscere in precedenza. Ho preso visione del provvedimento di grande sorveglianza con passaggi davanti la cella del detenuto ogni 15 minuti. Sono consapevole che il provvedimento fatto era per prevenire gesti autolesionistici o autosoppressivi. Dopo aver preso le consegne, mi sono recato dall’ispettore di sorveglianza presente sul piano per avere indicazioni sul Zemzami, successivamente stazionavo all’ingresso della prima sezione con gli altri colleghi. Alle ore 19,00 circa ricordo di aver visto che il detenuto Zemzami, che era solo in cella, accostava il blindato al cancello. Mi sono tranquillizzato perché l’ho considerato un segnale di normalità. Mi sono però preoccupato di andare a controllarlo prima del ritiro della socialità delle 19,30. In quell’occasione ho aperto il blindato e dopo aver controllato in cella e nel bagno ho visto il corpo del Zemzami che pendeva dall’angolo della branda con il viso rivolto verso il letto”.

Già solo questo brano del verbale sembra smontare l’idea della pm sul puntuale rispetto dell’iter previsto per pazienti/detenuti come il giovane marocchino. Non solo l’agente non effettuò i controlli disposti ma, invece di allarmarsi al segnale di chiusura dello sportellino blindato da parte di Zemzami, che era da solo in cella, lo riteneva un “segnale di normalità“. 

Tanto più che il ragazzo si trovava in una fase particolarmente delicata “appena dimesso dal centro osservandi di Ascoli Piceno”, in ragione della quale, non a caso, da parte della Direzione erano state disposte precise e stringenti disposizioni ad hoc. Ma la pm “con riguardo alle cautele successive, non si evidenzia alcuna incongruità e/o irregolarità nei provvedimenti adottati”. Eppure senza alcun preventivo avviso al Magistrato di Sorveglianza, che invece lo aveva espressamente richiesto, Anas fu riportato in carcere dopo il ricovero in osservazione psichiatrica ad Ascoli, con una diagnosi di “disturbo paranoideo di personalità”.

A Zemzami pertanto, ancora prima dello scadere dei termini di osservazione, veniva riscontata una presunta “cessazione delle cause che hanno determinato il ricovero”, condizione a cui Magistrato di Sorveglianza aveva subordinato il ritrasferimento nell’istituto di provenienza.

La lettera di dimissioni dello psichiatra, però, dava atto del rifiuto del cibo e delle terapie, di un tentativo di impiccagione il 5 settembre, 17 giorni prima della lettera di dimissioni, di una ideazione con spunti paranoidei e tematiche di rivalsa nei confronti dell’Amministrazione, di esternazione da parte del detenuto, negli ultimi giorni di ricovero, del fatto che il suo comportamento oppositorio era dettato dal disagio psichico derivante dalle restrizioni del regime detentivo.

Scriveva lo psichiatra che, “nei giorni successivi” al gesto anticonservativo, il detenuto “ha ripreso ad alimentarsi e ad assumere terapia farmacologica” ma quella  terapia non ha avuto un decorso «regolare e tranquillizzante in termini di ripresa continuativa, come invece vorrebbe indicare la relazione dello psichiatra («che potrebbe essere considerata auto difensiva“, osservano la memoria).

Per il consulente nominato dal pm un ciclo di nove giorni di terapia farmacologica «può ritenersi sufficiente a scongiurare ogni tipo di rischio di suicidio per un soggetto che in un arco di tempo così breve (si ribadisce, solo quattro mesi di detenzione) abbia attuato molteplici tentativi di gesti anticonservativi». Lla condizione di Zemzami gl’era parsa “stabile e ben compensata” – quindi non rientrante nel concetto di “patologia particolarmente grave” -, ritenendo paradossalmente insussistente l’incompatibilità con la detenzione carceraria e pertanto appropriata la decisione di un reingresso nel Carcere di Pesaro due giorni prima che riuscisse a impiccarsi.

«Ma invece era un dato ben noto a tutti gli operatori sia amministrativi che sanitari che hanno avuto in carico Zemzami prima e durante il suo ricovero ad Ascoli il fatto che egli avesse avuto un percorso all’interno del carcere di Pesaro costellato, quantomeno dall’inizio di giugno 2015, da perduranti, oggettive e gravi difficoltà di adattamento», insiste Anselmo tentando di arginare anche la prevedibile ennesima richiesta di osservazione.

La richiesta di ricovero al centro di osservazione risale già al 30 luglio 2015, un mese prima del suo effettivo ricovero. Poi è passato agosto il tempo più angosciante per l’adattamento al carcere. Zemzami stava sempre peggio, con una grave intensità e continuatività dei sintomi finché la direzione del carcere si è  vista costretta a ben tre motivati ricoveri in ambiente ospedaliero dal 7 all’11 agosto, dal 12 al 18 agosto, dal 26 al 31 agosto, essendo quello ospedaliero l’unico che consentisse una ripresa del detenuto.

Il 21 agosto 2015 il Dirigente Medico del Presidio Sanitario presso la Casa Circondariale di Pesaro giungeva, alle seguenti conclusioni: «Considerata il venir meno della compatibilità con questa casa Circondariale, in attesa di ricovero presso il CDOP si propone, come consigliato dallo specialista Psichiatra, il trasferimento di Zemzami Anas in un altro istituto penitenziario»; in pari data il Comandante di Reparto De Candia chiedeva al DAP e al Magistrato di Sorveglianza: “«Si chiede di valutare l’immediato trasferimento del detenuto Zemzami Anas presso altra sede Penitenziaria per motivi sanitari, non potendo più permanere in questo istituto». Tutti sapevamo il rischio che correva Anas, per tre mesi continuativi in una situazione di grave ed ingravescente disagio psicofisico, fino al 5 settembre 2015 quando, all’apice della sofferenza, egli ha posto in essere un “gesto anticonservativo”, un eufemismo per alludere al tentato suicidio. Per questo, il 22 settembre, le sue dimissioni con esito “positivo” (che presumerebbero la cessazione delle cause che hanno determinato il ricovero), sono sembrate una sorta di colpo di scena visto che nemmeno dieci giorni prima egli aveva avuto ancora episodi di non assunzione di terapia. Nessun’altra valutazione di compatibilità di Zemzami è più stata effettuata al momento delle dimissioni dalla struttura di Ascoli Piceno dopo poco più di venti giorni di valutazione e a un mese (il 21 ottobre) dall’udienza al Tribunale di Sorveglianza di Ancona per la richiesta di detenzione domiciliare. «Questa circostanza poteva e doveva indurre a riflettere sulla scelta di evitare il rientro nel carcere di Pesaro in attesa di tale determinazione e vista la perdurante fragilità del detenuto – continua Anselmo – e la stessa constatazione permane anche nella richiesta di archiviazione del pm il quale riconosce che “certamente, resta l’amara considerazione che lo Zemzani, se meglio seguito nella fase dell’esecuzione, avrebbe potuto beneficiare, probabilmente, di misure alternative alla detenzione; che l’esito dell’udienza fissata dal Magistrato di Sorveglianza avrebbe potuto essere positivo; che tutto ciò forse avrebbe potuto distoglierlo da un’ideazione suicidi aria, peraltro probabilmente ben radicata nello stesso».

Il Pm sa tutto e riconosce anche le importanti lacune nelle modalità di esecuzione della misura detentiva. «Ma nonostante ciò, ancora una volta ed in maniera del tutto paradossale, non riconosce alcun elemento idoneo a sostenere accuse nei confronti di alcun soggetto ed alcuna situazione probatoria che potesse fondare l’iscrizione dell’ipotesi criminosa», puntualizza il legale.

Il 28 gennaio gli ispettori incaricati di verificare cause e circostanze hanno segnalato che con ogni probabilità, si sarebbero potute porre in essere condotte che avrebbero quantomeno “reso più difficile l’esecuzione del progetto di morte” ma sembrano essere ignorati dal pm. Infatti sostengono che “rileggendo a ritroso la breve storia detentiva di Zemzami, risalta l’idea ossessiva del suicidio, di cui l’astensione dal cibo protratta per un lungo periodo rappresenta il primo indizio. Sorprende la dichiarazione degli operatori di non considerare tecnicamente sciopero della fame l’astensione del vitto del detenuto per l’assenza di indicatori quali comunicazione formale e l’indicazione della motivazione”.

Gli stessi presuppongono che le idee paranoiche dello Zemzami “fossero collegate al carcere in genere” e che tale fatto fosse stato interpretato come “manipolatorio non solo dal sistema carcere ma anche da quello ospedaliero”. «Una volta in carcere, il detenuto è stato gestito secondo i parametri e gli strumenti a disposizione, in attesa dell’udienza per la detenzione domiciliare davanti al Magistrato di Sorveglianza, il cui esito poteva prospettarsi favorevole, vista la disponibilità della famiglia all’accoglienza. Purtroppo non si è riusciti a capire che non ce l’avrebbe fatta ad arrivarci indenne», riporta la loro relazione.

«Poteva essere distolto il ragazzo dalla sua ossessione con un passaggio più frequente davanti alla cella? Non è facile dirlo, ma certamente il rispetto pedissequo della disposizione, avrebbe reso più difficile l’esecuzione del progetto di morte», mettono nero su bianco gli ispettori del Dap alla luce della probabile negligenza della guardia di turno. E’ il riconoscimento della carenza, dell’omissione fin dall’inizio segnalata dalla difesa di Anas e la sua diretta inferenza causale sul decesso di Zemzami. «Tanto è che la relazione si conclude con la previsione di una revisione dei processi di lavoro all’interno del carcere e la necessità di valutare le modalità operative dei gruppi multidisciplinari, la presa in carico dei detenuti a rischio e le azioni da intraprendere “uscendo da schemi rigidi e burocratici”», ricorda Fabio Anselmo.

Ma tutto ciò che è stato segnalato dalle ispezioni, dalle indagini difensive, dal gip e dal magistrato di sorveglianza «non è mai stato in alcun modo preso in considerazione dell’Ufficio della Procura.

L’ennesima richiesta di archiviazione rappresenta una risposta sorprendente ed inqualificabile per le ragioni di questa difesa, prendendo atto che l’iscrizione nel registro degli indagati dei soggetti coinvolti è un atto riservato al Pubblico Ministero e non al Giudice né tantomeno alla scrivente difesa. Proprio questa reiterata mancata iscrizione nel registro degli indagati delle persone individuabili – ed individuate – responsabili della morte di Zemzami costituisce uno sconcertante stallo processuale che, se non sciolto coattivamente dal Giudice, conduce inevitabilmente alla prescrizione».

LE RICHIESTE DI ARCHIVIAZIONE

Una prima richiesta di archiviazione giungeva a febbraio del 2016 ma il gip disponeva ad agosto l’integrazione delle indagini in ordine alle “condizioni cliniche del detenuto nel periodo immediatamente antecedente il decesso onde rapportarle con le valutazioni sulla permanenza in carcere e in caso positivo con le misure esigibili per scongiurare eventi suicidiari” e che siffatta indagine integrativa dovesse avvenire “in contraddittorio scientifico” tra il consulente tecnico nominato dal pm e il consulente di parte. A marzo, visto che il perito del pm aveva ignorato il gip, lo studio Anselmo  fa istanza al pm di autorizzare il Consulente medico-legale di a relazionarsi direttamente con il suo «al fine di procedere nei modi e nei termini disposti dal gip». Il gip dava  fino al 30 aprile ma il perito del pm evitava come la peste il confronto con il collega e presentava il proprio supplemento di indagine separatamente.

Contrariamente a quanto disposto dal GIP, l’integrazione investigativa di natura medico-legale  non avveniva in contraddittorio tra i due consulenti ed il dott. Pesaresi depositava il proprio supplemento (un mero riesame del diario clinico del detenuto), quasi due mesi dopo il termine imposto dal Pubblico Ministero, un «operato certamente biasimevole, se non altro sotto il profilo del mancato rispetto delle tempistiche imposte dall’esercizio dell’attività investigativa integrativa richiesta e dell’inosservanza del principio del contraddittorio scientifico nell’approfondimento dell’analisi medico-legale disposta dal gip».

L’indolenza di quel perito è dimostrata dal fatto che lo stesso pm, in data 02/05/2017, e quindi due giorni dopo la scadenza del termine assegnatogli per il deposito dell’elaborato, abbia provveduto a denunciare con separato fascicolo il proprio consulente senza tuttavia rinunciare a una seconda richiesta di archiviazione in data 14/07/2017, osservando che “dal supplemento di consulenza tecnica svolta non emergono elementi che possano indurre a ritenere che vi sia stata una errata valutazione, da parte del personale sanitario e non della Casa Circondariale di Pesaro, circa le condizioni psicofisiche di Zemzami Anas quando costui fece nuovo ingresso nell’istituto in data 25/09/2015”.

A febbraio del 2018, il gip accoglieva nuovamente l’opposizione alla richiesta di archiviazione, disponendo che il pm continuasse le indagini perché: “la motivazione della richiesta di archiviazione non è condivisibile» in quanto la relazione integrativa del suo consulente era zeppa di «profili di non completezza delle indagini in ordine alle condizioni di salute del detenuto, alle valutazioni sulla compatibilità delle stesse con la permanenza in carcere, alla individuazione delle misure esigibili per scongiurare eventi suicidiari dal momento che a fronte di considerazioni del dr. Pesaresi ve ne sono di segno opposto del Prof. Giorgetti”.

A questo punto Fabio Anselmo chiede che l’approfondimento medico–legale disposto dal gip potesse avvenire nelle forme dell’incidente probatorio, previa identificazione ed iscrizione nel registro degli indagati dei responsabili dell’omesso controllo sul detenuto Anas Zemzami, ed in particolare del personale penitenziario in turno responsabile della vigilanza prima del decesso di Zemzami Anas, del personale sanitario che ha avuto in cura Zemzami ad Ascoli Piceno e del responsabile della decisione di ritrasferirlo a Pesaro prima dei termini imposti dal Magistrato di Sorveglianza. Ma la pm formulava la terza richiesta di archiviazione da cui il terzo atto di opposizione con cui Anselmo evidenziava che non fosse possibile escludere che la morte del detenuto non fosse stata determinata da carenza nella valutazione del suo stato di salute e dalle modalità concrete di sorveglianza atteso che, secondo il Prof. Giorgetti (consulente della parte privata), «il soggetto presentava patologie di tale gravità che era prevedibile l’avverarsi del rischio suicidiario e che in concreto anche la sorveglianza non è stata accurata». Ma stavolta il gip dichiarava inammissibile l’opposizione, senza fissare l’udienza di discussione in camera di consiglio, e disponeva l’archiviazione del procedimento. Anselmo, tuttavia, a settembre di un anno fa, presenta un’istanza di reclamo anche per violazione del principio del contraddittorio e, a novembre, il tribunale di Pesaro dichiarava la nullità del decreto di archiviazione e rispediva gli atti all’Ufficio del gip dove, il 13 dicembre, si sarebbe svolta l’udienza in camera di consiglio di discussione dell’opposizione all’archiviazione. Solo due mesi dopo, saccheggio ancora la memoria, “chi scrive prende atto che gli approfondimenti eseguiti attengono ad una nuova relazione del consulente medico legale del pm; si ribadisce il contenuto della ordinanza di questo ufficio del 22/08/2016, quanto meno nella parte in cui le nuove indagini non possono prescindere da accertamenti peritali possibilmente collegiali; si aggiunga che la difesa ha introdotto un tema di investigazione di altra natura che attiene al controllo del contenuto della corrispondenza del detenuto (cartacea, telefonica o eventualmente informatica) con congiunti ed amici ma anche alla audizione degli stessi atteso che, secondo l’impostazione della parte privata, Anas Zemzami ebbe a manifestare anche a terzi forme di paranoia evocative del gesto suicidiario; appare dotato del crisma della ragionevolezza acquisire anche le relazioni di servizio ed eventualmente il materiale filmato afferenti alle modalità concrete di esercizio della “grande sorveglianza”.

Ma il 28 marzo la pm  avanzava la quarta richiesta di archiviazione, verso cui lo studio Anselmo ripropone l’opposizione denunciando il proprio sconcerto e la costernazione. L’ostinazione a mantenere il procedimento iscritto contro ignoti è che le prove assunte in eventuale incidente probatorio non possano essere usate nei confronti di imputati i cui difensori non abbiano partecipato alla loro assunzione, né nei confronti degli imputati raggiunti solo successivamente all’incidente probatorio da indizi di colpevolezza se il difensore non ha partecipato alla loro assunzione; «che però si ritiene siano ben individuabili – osserva Anselmo – ed individuati – nonché già più volte segnalate – le criticità in tema di responsabilità in capo, quanto meno, al personale sanitario, indicato nella cartella clinica del paziente, che ha avuto in cura Zemzami Anas durante il periodo di Osservazione Psichiatria presso il Centro di Osservazione Casa circondariale Ascoli Piceno dal 31/08/2015 al 23/09/2015, nonché al responsabile della decisione di ritrasferire il detenuto al Carcere di Pesaro prima dei termini imposti dal Magistrato di Sorveglianza con provvedimento del 04/08/2015 e comunque ai responsabili dell’omesso controllo del soggetto nella situazione di concreto rischio suicidiario in cui si trovava e di chiunque avrebbe potuto evitare il prevedibile evento mortale».

Così l’ennesimo capitolo di questa storia registra la richiesta al gip di provvedere all’iscrizione coatta nel registro degli indagati del personale penitenziario in turno responsabile della vigilanza prima del decesso di Zemzami Anas e dei sanitari che hanno avuto in cura Zemzami Anas durante il periodo di Osservazione Psichiatrica presso Centro di Osservazione Casa circondariale Ascoli Piceno nonché del responsabile della decisione di ritrasferire il detenuto al Carcere di Pesaro prima dei termini imposti dal Magistrato di Sorveglianza con provvedimento del 04/08/2015;

E, nel rispetto del contraddittorio, individuati quindi i responsabili dell’omesso controllo sul detenuto ai fini della validità dell’assunzione della prova, venga espletato incidente probatorio per valutare la gravità della patologia di Zemzami e di conseguenza la congruità di risbatterlo in galera alla luce di quelle sue condizioni psicofisiche, «di modo che si possa davvero saggiare l’inidoneità della notizia di reato, prima di disporne la dismissione».

 

 

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