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Chiudere la stagione delle gabbie per migranti

“Mai più. La vergogna italiana dei lager per immigrati”: un assaggio del nuovo libro di Left

C’è un dato scomparso dalla storia ufficiale, quello di coloro che in Italia hanno perso la vita a causa della detenzione forzata nei centri per immigrati. Luoghi in cui non valevano e non valgono nemmeno le garanzie dei regolamenti penitenziari, spazi pensati esclusivamente come zoo temporanei per persone. Left dedica il libro del mese alla storia dei luoghi di segregazione dei migranti proprio nel momento in cui i costruttori di gabbie celebrano la caduta di un muro. E proprio a ridosso del 9 novembre, giorno in cui scenderanno in piazza movimenti, associazioni, organizzazioni politiche contro il razzismo, per chiudere i Cpr, cancellare i decreti Salvini e Minniti, fermare la repressione e riaprire spazi di agibilità in questo Paese per l’accoglienza degna, il diritto all’abitare e la libertà di movimento e dei movimenti. Ecco dunque un anticipazione dell’introduzione. Stefano Galieni  e Yasmine Yaya Accardo di LasciateCIEntrare presenteranno il libro a Roma, venerdì 8, alle 19.30 al LABORATORIO POLITICO LEFT in via Ludovico di Savoia 2b, Roma Intervengono: Grazia Naletto – Annamaria Rivera – Giovanni Russo Spena. Modera: Simona Maggiorelli
Ingresso libero previa prenotazione QUI -> https://bit.ly/2qWGZ8L

di Stefano Galieni

“Centri di Permanenza Temporanea e Assistenza” fu il nome che venne dato alle prime strutture di detenzione amministrativa per migranti sorte in Italia dopo l’approvazione della legge Turco-Napolitano. Correva l’anno 1998 e già da allora si diceva nel centro sinistra, che bisognava coniugare “accoglienza e sicurezza”, ponendo l’accento sempre più sul secondo termine. I CPTA, acronimo delle strutture (ma la A di assistenza venne dimenticata), vennero realizzati in maniera improvvisata prima ancora di dare loro un quadro normativo.

Per la prima volta nel nostro paese, nel resto d’Europa era già prassi, si poteva privare le persone della libertà personale in virtù del fatto che la loro presenza non era considerata regolare. La finalità dei centri riguardava gli “stranieri destinatari di un provvedimento di espulsione con accompagnamento coattivo alla frontiera non immediatamente eseguibile”. Persone che non avevano commesso reati ma rinchiuse per ciò che erano. Per facilitare i rimpatri delle persone non gradite, l’allora ministro dell’Interno Giorgio Napolitano si affrettò a siglare i primi accordi bilaterali di riammissione con alcuni paesi del Nord Africa che raramente produssero i risultati sperati.

I centri, in cui si poteva restare rinchiusi fino ad un mese in attesa dell’espulsione, nacquero da un giorno all’altro e senza organicità. A Lampedusa, non c’era ancora la struttura di Contrada Imbriacola quindi le persone venivano tenute nei pressi dell’aeroporto e poi di un’ex base militare. Non risultava inquadrato come CPTA ma di fatto la sua funzione era quella. A Trapani venne preso in affitto un ospizio in disuso, il Serraino Vulpitta, e ci si realizzarono delle celle, a Roma si utilizzò parte di una caserma nei pressi dell’aeroporto di Fiumicino, a Ponte Galeria, e poi Agrigento, Bari, Brindisi. Già da allora i servizi di “assistenza” (sanità, pasti ecc.) vennero dati in gestione a imprese o cooperative che a volte partecipavano a gare pubbliche, più spesso ottenevano un affidamento diretto, con un business enorme. La sorveglianza esterna e la repressione interna in caso di emergenze era (come ancora oggi) gestita dalla locale prefettura e quindi attraverso personale dei diversi corpi dello Stato. Anche per questo furono in molti a “offrirsi” per fornire strutture adeguate, da Don Cesare Lo Deserto che fece rapidamente trasformare il suo centro Regina Pacis, prima adibito all’accoglienza, in un CPT, alle città di Milano (Via Corelli), Torino, (Corso Brunelleschi), Bologna (Via Mattei). A Modena ne sorse uno gestito dalle Misericordie il cui presidente, Daniele Giovanardi, fratello gemello del più noto uomo politico, non nascondeva pubblicamente di usare gli introiti ricavati per acquistare le ambulanze dell’ospedale di cui era primario. E poi Foggia, Crotone (Isola Capo Rizzuto) accanto a un immenso campo di accoglienza, Lamezia Terme, (gestito da un responsabile della protezione civile al posto di una comunità di accoglienza per tossicodipendenti). Nel 2006 si aprì il CPT di Gradisca D’Isonzo, ribattezzata la “Guantanamo italiana” per l’uso di tecnologia avanzata atta a impedire fughe, rivolte, socialità eccessiva fra gli “ospiti”. Sì perché chi vi era trattenuto non era considerato detenuto ma “ospite” al punto che se riusciva a fuggire, nonostante si scatenassero le caccie all’uomo, i responsabili per negligenza non potevano essere perseguiti. A Ragusa ne aprì uno solo per donne in pieno centro della città con telecamere interne alle stanze delle “ospiti” e con personale quasi esclusivamente maschile, chiuse quello di Agrigento per difficoltà di gestione e ne venne aperto uno a Caltanissetta (località Pian Del Lago), si spostò quello di Bari, per pochi mesi ne restò aperto uno a Trieste mentre nelle altre città si rese difficile la loro realizzazione sia per l’opposizione degli enti locali più spesso perché popolazione, movimenti sociali (insieme a difficoltà di reperire strutture idonee), ne impedirono la realizzazione, come nel caso di Corridonia, nel maceratese. Nel frattempo era entrata in vigore la Bossi–Fini, che raddoppiava i tempi massimi di trattenimento (da 30 a 60 giorni) ma si andava rapidamente dimostrando il fallimento di tale approccio all’immigrazione. I centri sin dalla loro apertura si erano dimostrati luoghi da cui si tentava di fuggire e in cui si moriva. La notte di Natale del 1999 veniva trovato morto, nel CPT di Ponte Galeria, Mohamed Ben Said, mascella rotta e forse imbottito di psicofarmaci. Pochi giorni dopo, il 28 dicembre, alcuni “ospiti” tentarono la fuga dal “Serraino Vulpitta” di Trapani, vennero ripresi, rimessi in cella e, sembra, uno di loro riuscì a dar fuoco al materasso. Non si trovarono le chiavi per aprire e in 6 trovarono una morte atroce (uno di loro dopo 3 mesi di agonia), non funzionavano gli estintori, insomma una strage annunciata in una struttura anche inadeguata al trattenimento.

C’è un calcolo macabro scomparso dalla storia ufficiale, quello di coloro che hanno perso la vita a causa della detenzione in questi spazi in cui non valevano e non valgono nemmeno le garanzie dei regolamenti penitenziari. Fra tentativi di fuga, mai chiariti malori, suicidi parliamo, per difetto, di una trentina di morti. Senza contare gli innumerevoli atti di autolesionismo, gli equilibri psicofisici spezzati da mesi di privazione della libertà, la repressione sempre seguita a rivolte e sommosse per la qualità del cibo, per avere colloqui con parenti e avvocati, per difficoltà strutturali derivanti da spazi pensati esclusivamente come zoo temporanei per persone.

Per parecchi anni, soprattutto fino al 2007, si sono realizzate mobilitazioni per chiedere la chiusura dei centri, giudicati dai più irriformabili, la più grande a Torino nell’inverno 2002, ma tante e in tutte le città in cui c’erano CPT o in cui si minacciava di aprirli. Mobilitazioni a volte creative e che riuscivano a parlare alla popolazione e alle persone rinchiuse, in altri casi aspramente e duramente conflittuali, spesso represse dalle forze dell’ordine. […]

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