La rimozione della storia coloniale nel dibattito in Italia sull’accoglienza dei migranti
di Riccardo Antoniucci/Mediapart
Quando Alessandro Di Battista ha strappato una banconota da 10.000 franchi CFA in diretta televisiva lo scorso gennaio (video qui sotto, dalle 19:16), probabilmente sapeva che il suo gesto avrebbe varcato i confini dell’Italia. Di ritorno da un lungo viaggio in America Latina, questo deputato, figura del M5S, stava mettendo in scena il suo ritorno in campo politico, sul set del programma Che tempo che fa. Con questo gesto, Di Battista aveva appena lanciato la campagna europea di maggio.
“La Francia, che stampa, vicino a Lione, questa moneta ancora usata in 14 paesi africani, […] maltratta la sovranità di questi paesi e impedisce la loro legittima indipendenza”, ha detto. Di Battista ha cercato di sfidare lo spazio politico occupato da Matteo Salvini, capo della Lega, sul tema della fermezza in fatto di immigrazione: “Finché non strappiamo questa banconota, che è una manetta per il popolo africano, possiamo parlare di porti aperti o chiusi, ma la gente continuerà a fuggire e a morire in mare».
Questo discorso non era del tutto nuovo per l’M5S. Luigi Di Maio, allora ministro del Lavoro, oggi ministro degli Affari Esteri, ha sviluppato più o meno la stessa argomentazione sull’immigrazione in un incontro in Abruzzo: “Dobbiamo parlare di cause. Se oggi si lascia l’Africa, è perché alcuni paesi europei, guidati dalla Francia, non hanno mai smesso di colonizzare l’Africa. L’UE dovrebbe sanzionare quei paesi, come la Francia, che impoveriscono gli Stati africani e spingono la gente fuori. Il posto degli africani è in Africa, non sul fondo del Mediterraneo».
All’epoca, questa retorica permise all’M5S di scavare a fondo nella sua differenza con la Lega sulla questione, dato che Matteo Salvini chiuse i porti italiani alle imbarcazioni dei migranti. Ma questa strategia doveva essere abbandonata per motivi diplomatici. Nathalie Loiseau, allora ministro degli Affari europei a Parigi, ha convocato l’ambasciatore italiano in Francia per denunciare “dichiarazioni inaccettabili e inutili”. L’ambasciatore francese a Roma è stato richiamato a Parigi una settimana dopo – in risposta a un incontro dei leader del M5S con i gilet gialli francesi.
In Italia questo episodio ha lasciato il segno, così come un post su Facebook del 5 luglio del sottosegretario agli Esteri di M5S Manlio Di Stefano. A seguito di un incontro tra il Presidente del Consiglio italiano Giuseppe Conte e Vladimir Putin, ha scritto: “L’Italia è capace e deve essere protagonista di una nuova era di multilateralismo, sincera e concreta. Possiamo, perché non abbiamo scheletri nell’armadio. Non abbiamo una tradizione coloniale. Non abbiamo sganciato bombe su nessuno. Non abbiamo legato il cappio a nessuna economia».
Queste affermazioni sono false. L’Italia non solo ha combattuto diverse guerre coloniali, anche con armi chimiche – in Etiopia dal 1935 al 1936, in circostanze a lungo tenute segrete – ma è stata anche uno dei primi Paesi a ricorrere ai bombardamenti in una guerra coloniale – la guerra italo-turca del 1911, combattuta in Libia. Nella prima metà del ventesimo secolo, l’Italia era a capo di un impero coloniale che comprendeva territori come la Somalia, la Libia, parti del Kenya e dell’Etiopia.
Questa uscita sbagliata del Sottosegretario di Stato italiano ha almeno un merito: è una perfetta illustrazione dell’impensabile coloniale, del rimosso, presente nella politica italiana contemporanea. Questo vale in particolare per diversi intellettuali impegnati, come lo scrittore romano di 45 anni e l’accademico Igiaba Scego. Proveniente da una famiglia somala, ha posto la questione coloniale al centro della sua attività letteraria (compreso il suo romanzo Adua). In un articolo pubblicato da Le Monde il 3 febbraio, critica senza mezzi termini l’ipocrisia di chi parla del “colonialismo altrui”.
A suo avviso, la polemica sul franco CFA ha sollevato la questione della cancellazione della storia coloniale in corso in Italia: “All’inizio mi ha colpito il fatto che nessuno abbia una memoria del colonialismo. A scuola non ne parlavano. È stata tutta la mia generazione, non solo gli afro-discendenti, a cominciare a fare domande”, racconta a Mediapart.
Spiega questo fenomeno con il modo in cui il ritorno alla democrazia è avvenuto dopo la seconda guerra mondiale: fascismo e colonialismo sono stati associati, per poi essere ignorati. Solo che tutto ciò che viene represso finisce per venire a galla, soprattutto quando l’attualità ce lo ricorda: “Oggi il corpo del migrante ha sostituito nell’immaginazione il corpo del soggetto coloniale. “La migrazione contemporanea ci ricorda l’urgenza di conoscere il periodo coloniale”, ,dice Scego.
Mentre il mondo politico tradizionale italiano evita questo delicato argomento, la questione è sul tavolo da circa dieci anni, da parte della sinistra radicale. Il merito va principalmente a un gruppo di scrittori che si è formato nei primi anni 2000 sotto il nome collettivo di Wu Ming (che significa sia “cinque nomi” che “senza nome” in mandarino).
Sotto un altro nome, preso in prestito da un calciatore inglese degli anni Ottanta, Luther Blissett, avevano già pubblicato collettivamente un testo, L’Œil de Carafa (Seuil, 2001, Q nell’edizione italiana Einaudi). Ora gestiscono il blog di informazione politico-culturale Giap. “Ogni giorno parliamo di migranti africani senza che nessuno si ricordi dei rapporti storici dell’Italia con paesi come l’Eritrea, la Somalia, l’Etiopia o la Libia”, dice Giovanni Cattabriga, 45 anni, alias Wu Ming 2, che è il coautore nel 2013 di Timira, un romanzo meticcio, un tentativo di “creolizzare la resistenza italiana” a Mussolini.
Sulla scia del grande storico e critico del colonialismo italiano, Angelo Del Boca, i Wu Ming hanno aperto un progetto storico contro-narrativo che si rivolge al razzismo insito nella cultura italiana (alcuni dei cui testi sono stati tradotti in francese da Métailié). Il loro angolo di attacco: il mito di un’Italia benevola, con una storia coloniale solo marginale. Al contrario, ricorda Cattabriga, “le fondamenta del colonialismo italiano sono state gettate molto rapidamente dopo l’unificazione del Paese nel 1869, appena otto anni dopo la creazione del primo regno d’Italia, e prima dell’annessione di Roma nel 1870”.
La costruzione nazionale e l’impresa coloniale si sono sviluppate in parallelo. “Una parte dell’identità italiana è stata definita attraverso l’impresa coloniale, nello specchio della propaganda e del razzismo che essa trasmetteva”, insiste Cattabriga. Insomma, se ricordiamo le parole del patriota Massimo D’Azeglio, ex primo ministro del Regno di Sardegna e protagonista dell’unità d’Italia, che nel 1861 dichiarò che “l’Italia è fatta, bisogna fare gli italiani”, potremmo aggiungere che gli italiani sono stati “fatti” anche grazie al colonialismo, nonostante il non detto della storia ufficiale.
“La sinistra ci ha abbandonati”
Al termine rimozione, Cattabriga preferisce quello di oblio: “Da un punto di vista psicoanalitico, la rimozione si basa sulla vergogna, un senso di colpa irrisolto. Non c’è traccia di questo sentimento nella storia politica italiana. “Secondo questo storico, l’oblio coloniale italiano diventerebbe la parte fondamentale di un’architettura vittimizzante che serve a giustificare una politica di clausura di fronte agli stranieri.
“Fare la vittima fa parte della costruzione nazionale. Il nostro inno dice: “Noi fummo da sempre calpesti e derisi, perché siam divisi”. Oggi il discorso dominante presenta gli italiani come vittime dell’immigrazione per la quale non hanno alcuna responsabilità. Questa vittimizzazione non potrebbe funzionare se i ricordi della violenza del colonialismo rimanessero vividi».
Un meccanismo identico sembra essere in atto nella controversia sul franco CFA: “La politica neocoloniale francese è stigmatizzata dall’enfasi sul suo carattere militare, a cui si oppone un presunto “stile italiano” basato sulla cooperazione e l’aiuto all’Africa. Ma si sta attenti a non dire che l’Italia ha interessi neocoloniali in competizione con quelli dei francesi”, insiste Cattabriga.
Sulla stessa linea si colloca lo storico Michele Colucci, autore di una recente Storia dell’immigrazione straniera in Italia. Per lui, “l’idea che l’Italia sia un Paese di recente immigrazione è pratica, perché evita di riconoscere la realtà dell’emigrazione, fenomeno di lunga data in Italia”. Prendiamo il caso degli eritrei che ora fuggono da un regime autoritario. Secondo i dati delle Nazioni Unite e del Ministero dell’Interno italiano, essi rappresentano circa il 14% dei 23.000 sbarchi in Italia nel 2018, ovvero 3.300 persone. Nell’anno precedente rappresentavano solo il 6% dei 119.000 arrivi. Dal 2015 al 2016 sono stati la seconda nazionalità dopo la Nigeria, dove l’ENI, il gigante italiano del petrolio e del gas, opera dal 1962.
“La migrazione dalla Somalia, dall’Etiopia e dall’Eritrea verso l’Italia è iniziata durante la seconda guerra mondiale. Si sono intensificati con la decolonizzazione degli anni Cinquanta [la Somalia è stata posta sotto la tutela dell’Onu dal 1950 al 1960, dopo la fine dell’occupazione britannica]. Questo è stato sufficiente a rendere l’Italia una nazione post-coloniale. “Anche se si rifiuta di riconoscerlo».
Gli stereotipi coloniali hanno la pelle dura. Secondo Giovanni Cattabriga, alias Wu Ming 2, “[lui e i suoi colleghi] hanno contribuito a sensibilizzare una parte della sinistra antirazzista, ma non ritiene che, nel complesso, siano riusciti a frenare le manifestazioni di razzismo”: “Al massimo, direi che abbiamo dato agli antirazzisti uno strumento di analisi. »
Igiaba Scego identifica un ostacolo più profondo. Il problema”, dice, “è che in Italia gli afro-discendenti non fanno parte della comunità intellettuale. Siamo sempre considerati un fenomeno strano: la scuola, l’università, le redazioni dei giornali sono luoghi totalmente “bianchi”. Per non parlare della classe politica, con i suoi volti così pallidi da sembrare dipinti».
Questa osservazione sul “biancore” dei luoghi del potere italiano è un ritornello negli ambienti militanti e antirazzisti. Ne è convinto l’attivista Filippo Miraglia, anello di congiunzione tra il mondo politico e quello associativo: “Nonostante gli oltre cinque milioni di residenti stranieri presenti ormai da trent’anni, soffriamo per l’assenza di un ruolo di primo piano delle persone di origine straniera nella politica italiana, nella rivendicazione dei diritti. A mio parere, questa è una delle ragioni delle sconfitte degli ultimi vent’anni».
Miraglia, che è stato presidente dell’ARCI (l’associazione per la promozione sociale della sinistra antifascista fondata nel 1957, una delle più influenti nei Paesi) tra il 2014 e il 2017 (è attualmente a capo del suo dipartimento per l’immigrazione) e si era candidato alle elezioni legislative del 2018 con Leu: “Negli anni Novanta, i sindacati e le associazioni si affidavano a dirigenti di origine straniera. Ma questa era solo la cooptazione di persone, senza un vero e proprio ancoraggio sul campo. Queste persone sono presto cadute nell’oblio. Alcuni di loro hanno anche sperimentato la disoccupazione, aggravando la frustrazione delle comunità di origine».
L’impasse delle organizzazioni antirazziste non è estranea alla più ampia crisi della sinistra del Paese. Ecco perché, di fronte a questa realtà, le soluzioni più interessanti vengono indubbiamente inventate al di fuori delle organizzazioni tradizionali. È il caso del movimento degli italiani di seconda generazione, o “G2”, che riunisce i figli degli immigrati, la maggior parte dei quali è nata in Italia, ma per i quali l’accesso alla cittadinanza italiana rimane complicato.
Dal 2005 al 2017, questi giovani hanno guidato un movimento sociale. Il movimento chiedeva una riforma della legge sulla cittadinanza italiana che avrebbe concesso questo status a circa 800mila bambini del paese. La legge mirava a introdurre lo ius soli, a determinate condizioni (tra le altre, la presenza di uno dei genitori sul territorio per cinque anni o l’obbligo di aver completato un ciclo scolastico completo in Italia).
Questo movimento riuscì a imporre il dibattito alla Camera nel 2017, sotto il governo di Matteo Renzi, ma perse il sostegno dello stesso Partito Democratico al Senato. “La sinistra ha commesso un grave errore nel rifiutare questa legge”, ha detto Igiaba Scego, che era stato coinvolto nella campagna. Questa riforma era ancora insufficiente, ma ci siamo detti che era meglio di niente. La sinistra ci ha abbandonati, anche la sinistra che non è rappresentata in Parlamento. Eravamo gli unici a manifestare: immigrati e figli di immigrati. C’erano poche associazioni, pochi intellettuali e un grande vuoto politico. Secondo me, è qui che è iniziata l’ascesa di Matteo Salvini».
Alcuni, però, vogliono rimanere ottimisti, come lo storico Michele Colucci, che nel suo libro sottolinea il ruolo crescente degli stranieri nelle lotte di lavoro, in particolare nel settore agricolo: “Se la riforma delle nazionalità è stata discussa nel Parlamento italiano, è solo grazie all’organizzazione di un gruppo di immigrati di seconda generazione. Questo movimento si è evoluto indipendentemente dai partiti politici e ha portato a una nuova agenda. Questa è una lezione importante da imparare».