Pneumatici, ombrelli, black bloc e book bloc. Alcuni antropologi hanno studiato le tecniche di lotta in tutto il mondo [Joseph Confavreux]
Seminare confusione. Questo è il bel titolo di un numero speciale di Techniques et culture, la rivista di antropologia dell’École des hautes études en sciences sociales (EHESS), la cui copertina mostra i famosi ombrelli utilizzati dai dimostranti di Hong Kong per proteggersi durante gli scontri con la polizia.
Nell’ambito della mobilitazione delle università e dei laboratori contro la legge sulla programmazione pluriennale della ricerca (LPPR), che privilegia la performance individuale rispetto alla ricerca collettiva, gli antropologi dell’EHESS hanno deciso di chiamare un numero speciale, chiedendo a molti di loro di guardare, nei loro rispettivi campi, i “frammenti di lotta” e le tecniche di resistenza che potevano osservare.
Il risultato è un panorama di oggetti e tecniche di lotta utilizzate in tutto il pianeta, la cui connessione ha tanto più senso quanto più numerose sono le circuitazioni storiche e geografiche. Questi prestiti e riappropriazioni sono vecchi quanto le mobilitazioni politiche. L’associazione Droit au logement (Diritto all’alloggio) aveva ripreso i metodi di insediamento degli edifici sviluppati da Georges Cochon all’inizio del XX secolo. L’associazione pacifista israelo-palestinese Ta’ayush aveva contattato la sudafricana ANC per scoprire come diffondere la sua causa all’interno di una società divisa.
Ma questi scambi sono aumentati con la globalizzazione, anche per resistere ad essa. Uno degli articoli della rivista prende così l’esempio eclatante del pneumatico, simbolo dell’accelerazione del commercio e del relativo inquinamento, di cui ogni anno nel mondo vengono prodotte 12 miliardi di unità. Ma, da Fos-sur-Mer all’Argentina, il pneumatico, questa volta infiammato, è diventato anche l’incarnazione del blocco e della volontà di fermare la corsa dei mercanti. Nella nota che dedica all’uso militante del fuoco dei pneumatici, l’antropologo Yann-Philippe Tastevin, tuttavia, ne individua un altro, più recente, che consiste nel “dare schermo”. È quello che hanno fatto i rivoluzionari di Aleppo nel 2016 per deviare gli aerei del regime che li ha bombardati o di Hamas, che ha organizzato a Gaza nel 2018 un “giorno di vecchi pneumatici” per accecare i droni israeliani e per potersi avvicinare al muro di sicurezza.
Concentrandosi sul pneumatico e sulla barricata, sul “fax nero” e sulle cartografie delle popolazioni indigene, gli autori vogliono “rimaterializzare la politica” in un contesto caratterizzato da grandi sconvolgimenti ecologici e da “una violenza naturale-culturale senza precedenti” che fa dire alla filosofa Donna Haraway che è necessario “abitare il disordine”, ma anche imparare a seminarlo.
La rivista segnala immediatamente due insidie di questo tipo di approccio alla politica attraverso tecniche di contrasto. Il primo è un approccio che è affascinato dalla tecnologia ed è quindi fragile di fronte ai “rischi etici di esaminare i modi di fare in modo isolato dalla causa da difendere”. Questa dimensione è, in particolare, analizzata da un contributo che mette in discussione i modi di introdurre nel contesto museale oggetti provenienti dai movimenti sociali, come vediamo sempre più spesso.
Il secondo è giudicare le tecniche di lotta solo o principalmente sulla base di un criterio di “violenza”. Gli autori si riferiscono alla famosa frase di Brecht – “un fiume che porta via tutto si dice sia violento”. Ma non si dice mai nulla della violenza delle banche che lo circondano” – il che sottolinea la dimensione relazionale, anche sistemica, della violenza, per non lasciarsi accecare da ciò che è più visibile: distruzione, scontri, saccheggi?
Un’originalità del progetto è quella di distinguersi, nell’analisi delle tecniche di lotta, dalla nozione egemonica di “repertorio d’azione”, forgiata dal sociologo Charles Tilly, per arrestare le mobilitazioni politiche non elettorali.
Questa concezione ha diversi difetti agli occhi degli autori della rivista. In primo luogo, “associare azioni e performance di protesta all’interno di un repertorio tende a minare il loro potenziale di cambiamento sociale”. Soprattutto la tesi di repertorio d’azione tende, per loro, a “distinguere solo modi di protesta visibili, eterogenei e salienti”.
Che ne è della “resistenza delle ombre, delle forme di protesta impostate come stili di vita (come gli squat artistici o militanti)” o delle posture delle lotte individuali e silenziose, almeno in apparenza, esplorate dall’antropologo James C. Scott?
Nello studiare gli atti di resistenza diffusi descritti come infrapolitici, egli distingueva tra un “testo pubblico”, a volte impossibile da esprimere, e un “testo nascosto” che dava ai subalterni una certa agilità, anche quando non era espresso nello spazio pubblico. James C. Scott ha così definito le “arti di resistenza” e le più svariate tecniche di lotta, che si riflettono nel numero della rivista, ad esempio con un’analisi delle “strategie taoiste di lotta”, della Gamarada, il dispositivo di resistenza e incubatore di resistenza degli aborigeni australiani, o delle abilità di cura della strada sviluppate dai medici di strada.
“Dove la storiografia del repertorio d’azione incita a limitare la “scorta” di mezzi di lotta e a chiudere il repertorio, la tecnologia culturale è invece interessata al gioco e all’apertura che caratterizzano il registro materiale delle mobilitazioni”, giudicano così gli autori di Techniques & Culture.
“Resistenze elettriche”
Questo numero 74 della rivista di antropologia dell’ EHESS alterna avvisi relativamente brevi su oggetti o tecniche di lotta, a scoperte diacroniche e più lunghe. Così dallo studio del sabotaggio, che apre la questione e si estende dai cosiddetti conflitti Plug Plot del 1842, quando la Gran Bretagna stava attraversando una crisi economica e i lavoratori sabotavano le macchine a vapore rimuovendo una parte essenziale che ne bloccava l’uso, per mettere pressione sui “padroni del vapore”, fino alla diffusione di questa pratica alla fine del XIX secolo, soprattutto sotto l’impulso del sindacalista anarco-rivoluzionario Émile Pouget.
Per quest’ultimo, questa pratica di lotta è stata pensata come un’arma complementare allo sciopero e attacca il processo di produzione, più che le macchine stesse, il che implica non prenderla come una semplice rievocazione delle pratiche luddiste di inizio Ottocento. Il sabotaggio perde la sua aura nel corso del XX secolo con l’istituzionalizzazione del sindacalismo, prima di ritrovare, in tempi recenti, una rilevanza “tra coloro che vogliono far deragliare il sistema produttivo contemporaneo, accusato di portare al collasso sociale e ambientale”, in un contesto di declino del sindacalismo organizzato.
Questo numero affronta anche la nozione di blocco in politica. Questa tecnica di lotta contemporanea, inizialmente denominata con il nome di una categoria di polizia, il “schwarzer block”, che ha dato il nome al “blocco nero”, e che da allora è stata più volte declinata, in particolare con il “book bloc”, apparso alla fine del decennio 2000, durante gli scioperi studenteschi in Italia, quest’ultimo costituito da scudi rinforzati decorati come copertine di libri, e “allegorizzati come attacchi alla conoscenza in generale”.
La nozione trae la sua filosofia dall’inizio del XX secolo, sia dalle analisi del medico e sociologo Gustave Le Bon, teorico della “psicologia delle folle” che sottolineava la necessità di decapitare le folle ribelli prendendo di mira i loro presunti leader, e il filosofo e figura del sindacalismo rivoluzionario della Belle Époque Georges Sorel, che ha riassunto l’equazione dell’autonomia degli operai valorizzando il blocco nel senso che, per lui, “il sindacalismo non ha la testa con cui fare diplomazia utile” e frenare le rivolte. Come ha dimostrato ancora una volta il “blocco giallo” durante l’insurrezione dei gilet di quel colore.
Se certe tecniche di lotta analizzate dalla rivista sono molto, anche troppo conosciute per portare in poche pagine elementi davvero nuovi, come la barricata o il die in, altre si distinguono invece per la loro originalità. Per esempio, i flaconi di “profumi solidali” venduti dai lavoratori della fabbrica di plastici della Bourgogne Application in Costa d’Oro per sostenere il loro sciopero contro la chiusura del sito nel 1996.
Un altro esempio è la “offensiva della spazzatura” condotta dagli Young Lords, un gruppo rivoluzionario portoricano nato a Chicago che si è diffuso a New York ed è stato attivo dal 1969 al 1976. Ispirati dalle Pantere Nere e dal loro slogan “al servizio del popolo”, si sono resi conto che gli abitanti di El Barrio, un ghetto di Harlem spagnola, chiedono soprattutto il diritto a strade pulite, mentre i servizi municipali si avventurano poco o niente.
Dotati di baschi guevaristi, gli Young Lords cominciano a pulire le strade: un’azione che si trasforma in antagonismo frontale quando i servizi municipali si rifiutano di fornire loro delle scope. gli Young Lords e i residenti locali alla fine bloccano il traffico con questi bidoni dell’immondizia che, quando sono in fiamme, diventano barricate.
“Trasformando l’immondizia, simbolo della discriminazione subita dagli abitanti del Barrio, in una leva di mobilitazione e poi in un’arma, gli Young Lords si sono dimostrati una forza locale credibile”, nota l’autore del volumetto, che aveva già scritto di questo gruppo di attivisti latinoamericani.
Una delle esperienze studiate nella rivista, che unisce disobbedienza civile, trasmissione di know-how e lotta politica generale, è quella della “resistenza elettrica” del movimento “Luz y Fuerza del Pueblo” in Chiapas. Questo gruppo, con una componente essenzialmente contadina e indigena, che comprende i popoli Tojolabal, Ch’ol, Mam, Tzotzil, Q’anjob’al e Chuj, discendenti degli ex Maya, è stato creato nel 2004 e si batte per l’accesso all’elettricità.
Attraverso connessioni abusive e controllo capillare del territorio, gestisce oggi l’infrastruttura elettrica in 15 regioni del Chiapas, impedendo alla società nazionale, CFE, e ai concessionari privati di togliere la corrente attraverso la formazione sistematica degli elettricisti, un migliaio dei quali hanno acquisito competenze tecniche altamente specializzate, “permettendo loro di lavorare al posto del CFE, su cavi e trasformatori di media e bassa tensione”.
Questo know-how è stato acquisito attraverso la trasmissione “sovversiva”, in origine dai lavoratori del sindacato degli elettricisti messicani (SME), e la creazione di imbracature di sicurezza realizzate intrecciando corde di cuoio foderate con bastoni di legno, per salire sui piloni, e pali isolanti costruiti con bastoni di legno, alle cui estremità è ancorato un supporto in PVC.
Uno degli aspetti più interessanti di questa pratica è che combina una forte logica anticapitalista e antiglobalizzazione, che si ritrova in altre latitudini, con i veggenti maya che credono che la natura e la Madre Terra siano abitate e non possedute, e che quindi i loro frutti, di cui la luce fa parte, devono poter giovare a tutti e non possono essere sottoposti alla tirannia della proprietà e del profitto.
Postulando che le tecniche di lotta non possono essere ridotte alle varie tessere del fai-da-te prodotte dai movimenti, né possono essere afferrate dalle grandi nozioni di “repertorio d’azione” o di “capitale militante”, gli autori di Semer le troubler abbozzano gli elementi di una “tecnologia della contestazione” che permette di trasformare un’idea in un arsenale, attraverso un’antropologia del corpo e delle tecniche.