I sindacati di polizia davanti all’Assemblea Nazionale, con l’appoggio del governo in carica, dell’estrema destra e dei due partiti storici della sinistra
In un testo pubblicato da The Conversation, il ricercatore Vincent Sizaire ritiene che in Francia “le pene per i crimini commessi contro gli agenti di polizia sono già le più alte che possono essere imposte in una società democratica». L’accademico mette in guardia contro la tendenza “al rialzo” che “tende a presentare l’istituzione come al di sopra della legge, rompendo così il legame di fiducia che dovrebbe unirla alla popolazione”. Della violenza crescente della polizia francese Popoff ha scritto molto per le analogie impressionanti con le tendenze italiane del “partito della polizia” e per la relazione tra violenza feroce delle polizie di ogni ordine e grado e conflitto sociale contro le “riforme” ultraliberiste di Macron e dei suoi predecessori. Proprio oggi, 19 maggio, Parigi sarà teatro di una manifestazione dai tratti surreali se non proprio terroristici se si considera la tendenza eversiva della subcultura egemone in settori ampi di chi lavora in divisa: i sindacati di polizia, infatti, hanno indetto una manifestazione davanti all’Assemblea Nazionale, alla quale i politici di tutti gli schieramenti – non solo il controverso Darmanin, ministro dell’Interno – intendono unirsi. Compreso il segretario dell’ectoplasma del Pcf. I principali leader delle due forze storiche della sinistra francese, il Partito Socialista (PS) e il Partito Comunista (PC), Olivier Faure e Fabien Roussel, a cui presto si unirà l’ecologista Yannick Jadot , hanno infatti annunciato la loro partecipazione alla manifestazione, chiaramente non trovando nulla di male in questa pressione poliziesca sul potere legislativo. La messa in scena delle divise ha lo scopo di esprimere il “sostegno dei cittadini” alla polizia, ma anche di fare richieste precise alla politica. Nonostante i ripetuti gesti di benevolenza del governo, i sindacati di polizia chiedono una severità ancora maggiore contro gli “aggressori della polizia”. Il governo ha già detto sì, senza se e senza ma, con una serie di annunci, anche se la maggior parte delle misure menzionate esistono già. Jean Castex, il primo ministro, ha promesso, prima di tutto, di punire più severamente gli assassini della polizia. Annuncia che in caso di condanna all’ergastolo, la pena di sicurezza sarà aumentata da 22 a 30 anni, dimenticando che dal 2011, la corte d’assise può già decidere di pronunciare una pena di sicurezza così lunga. Il governo intende anche limitare le possibilità di riduzioni di pena per gli autori di attacchi fisici contro la polizia. La legge sulla sicurezza globale, appena adottata, prevede già il ritiro di un terzo di questi. Nel suo progetto di legge “per la fiducia nella giustizia”, esaminato questa settimana all’Assemblea, Éric Dupond-Moretti vuole arrivare alla metà, se la violenza è classificata come criminale. Questo significherebbe allineare il trattamento degli aggressori di polizia con quello dei terroristi. Il governo ha tuttavia respinto la richiesta di “pene minime per gli aggressori delle forze dell’ordine”, che equivarrebbe in pratica a resuscitare le pene minime messe in atto dal governo Fillon, nel 2007, e abolite nel 2014. Questa domanda insoddisfatta è diventata così la parola d’ordine dell’assembramento di divise in programma questo mercoledì.
La cantilena sulla “giustizia permissiva”, eterno oggetto di fantasia, intonata anche dagli epigoni italiani del sindacalismo di polizia, è smentita dai dati ufficiali, da questa e da quella parte delle Alpi. Senza considerare la realtà delle sentenze pronunciate dai tribunali. Il rapporto Cazaux-Charles, commissionato dal governo nel 2016 (ultimo con i dati ufficiali) conclude che “la risposta giudiziaria, che è ricorrentemente chiamata in causa dalle forze di sicurezza, è apparsa adeguata”: “severità” e “persecuzione quasi sistematica” sono all’ordine del giorno contro gli aggressori. Ma, dopo il verdetto sul caso Viry-Châtillon, l’attentato che ha ucciso Stéphanie Monfermé a Rambouillet e l’omicidio di Éric Masson ad Avignone, il dibattito pubblico francese è di nuovo incentrato sulla sicurezza dei poliziotti, la repressione dei loro aggressori e le accuse di “lassismo” rivolte all’istituzione giudiziaria. È come un eterno riavvio. L’ultima volta che i sindacati hanno protestato è stato nell’ottobre 2019. Una “marcia della rabbia” era stata organizzata per denunciare le condizioni di lavoro e il malessere di una professione particolarmente colpita dai suicidi. È passato più di un anno e i suicidi rimangono la principale causa di morte nella polizia, molto più degli omicidi o delle morti accidentali in missione. Nel 2020, secondo i dati del Ministero dell’Interno, diciotto agenti di polizia e gendarmi sono morti in servizio. Mentre da trenta a sessanta poliziotti finiscono la loro vita ogni anno, con la loro arma di servizio in più della metà dei casi.
Insomma oggi, uno degli articoli della prima Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino potrebbe diventare carta straccia proprio nel paese in cui si affermava nel 1789: “La garanzia dei diritti dell’Uomo e del Cittadino richiede una forza pubblica, questa forza è dunque istituita a beneficio di tutti, e non per l’utilità particolare di coloro ai quali è affidata”.
«In altre parole: la polizia non può fare la legge; è al servizio dei cittadini e solo di loro, dei loro diritti e delle loro libertà; la sua missione primaria è quella di essere un guardiano della pace a beneficio di tutta la popolazione e non di ridursi a una forza per mantenere l’ordine a solo beneficio del potere in carica. La Repubblica non è al servizio della polizia. Al contrario, spetta alla polizia sottomettersi alla Repubblica, alle sue leggi fondamentali, ai suoi testi fondatori, ai principi e ai valori che essi enunciano», così commentano Edwy Plenel ed Ellen Salvi su Mediapart in un pezzo molto interessante a proposito dell’escalation di pressione poliziesca sulla rappresentanza nazionale.
Ancora: «Il semplice fatto che Gérald Darmanin si precipiti a questa manifestazione, anche se i sindacati di polizia hanno disertato il suo “Beauvau della sicurezza”, la dice lunga sul rapporto di potere che ha con la professione. Che lo faccia evocando in un guazzabuglio gli “attacchi della classe mediatica”, il terrorismo, “un anno di violenza di una parte dei ‘gilet gialli'” e le aggressioni di cui possono essere vittime le forze dell’ordine, è al meglio disonestà intellettuale, al peggio pericoloso confusionismo. La polizia dovrebbe dipendere dal ministro dell’interno, che a sua volta dipende dai cittadini. Non il contrario. Questa rinuncia dell’esecutivo alla sua autorità politica su una forza di coercizione va al di là del simbolico: significa una privatizzazione della forza pubblica al servizio dei governanti, degli interessi particolari che proteggono e della loro sopravvivenza di fronte alle proteste, come chiaramente illustrato dalla repressione del movimento dei Gilet Gialli. Ma, come scrive l’avvocato François Sureau in Sans la liberté (Tract/Gallimard), “possiamo anche vedervi l’ammissione di una rassegnazione che tutte le grandi parole del mondo non potranno più cancellare dalla nostra memoria collettiva, se almeno non smettiamo di dimenticare che siamo cittadini prima di essere elettori” (…)
“Alla fine, dipende da noi se coloro che governano e reprimono sono capaci di andare fino in fondo a questa inclinazione all’autoritarismo che è la sorte di ogni potere, motivo per cui i nostri elettori hanno voluto la separazione dei poteri”, continua questo liberale radicale, attaccato alle libertà fondamentali. La separazione dei poteri è sempre stata un concetto molto nebuloso per questo esecutivo, come dimostra ancora una volta la presenza del ministro dell’Interno alla manifestazione di mercoledì. In un tale clima, nessuno si sorprende di sentire il ministro dell’Interno descrivere le forze di polizia come “soldati” che servono una “guerra”, usando un campo lessicale che fa eco a questa petizione in cui 93 poliziotti in pensione chiedono di “reclamare il proprio paese e ristabilire l’autorità dello stato dove manca”. Allo stesso tempo, un settimanale di estrema destra ha pubblicato due articoli di militari di riserva e poi attivi che chiedevano una presa di potere muscolare di un paese minacciato da nemici interni come l’alterità (culturale, religiosa) o la dissidenza (politica, sociale).
Nessuno si sorprende più. E nessuno – o molto pochi – sono indignati. La violenza della polizia è in aumento, ma le autorità ne negano l’esistenza. Nel caso di Viry-Châtillon, riveliamo che una montatura della polizia ha portato dei giovani innocenti in prigione per diversi anni, ma questo non suscita nessuna disapprovazione ufficiale. Siamo collettivamente anestetizzati dalle loro paure. E questa condizione di atonia non è di buon auspicio. Tanto più che il bisogno di potere autoritario, che finora è stato rivendicato solo dall’estrema destra xenofoba, viene ora accarezzato da coloro che sono al potere e che dicono di bloccarlo, ma gli stanno preparando la strada.
Mediapart fa notare che verdi, socialisti e “comunisti” hanno trovato mille pretesti, nel recente passato, per non manifestare uniti contro la discriminazione, l’islamofobia o la violenza della polizia. «Come interpretare la loro smania di seguire l’agenda ideologica imposta dalla destra, sempre più estrema, invece di accompagnare le lotte dove si costruisce la speranza? A un anno dalle elezioni presidenziali, queste domande suonano come la campana a morto per una sinistra che è ormai una sinistra solo di nome. In questo episodio di manifestazioni poliziesche, La France insoumise (LFI) e i suoi vari alleati, così come alcuni ecologisti, stanno salvando il loro onore, mantenendo il corso dell’alternativa rifiutando la strumentalizzazione politica. Ma una parte della sinistra agisce la sua divisione e, quindi, la sua sconfitta, raccogliendo le ossessioni dei suoi avversari. Così facendo, volta le spalle alla società, cercando legittimità solo nell’ordine stabilito, nelle sue ingiustizie e nella sua cecità».