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29 settembre ’62, i ragazzi italiani che piegarono Franco

29 settembre 1962, a Milano otto giovanissimi antifascisti rapiscono il vice console spagnolo. Quando l’internazionalismo è efficace

Questo racconto è il frutto di una suggestione che mi ha dato Daniele Barbieri, di una ricerca tra gli archivi anarchici e nel Centro Livio Maitan di Roma, di una chiacchierata con uno dei protagonisti ed è stato pubblicato sulla Bottega del Barbieri (qui il modulo per iscrivervi alla newsletter) molto attenta alle “scor-date”, persone o eventi che il pensiero dominante e l’ignoranza che l’accompagna deformano, rammentano “a rovescio” o cancellano. Buona lettura

Solo posti numerati sui lenti treni spagnoli, nel 1962. Non erano convogli premium comfort ad alta velocità, era il franchismo. I grigi del Cuerpo de policia armada e la Guardia Civil avevano bisogno di sapere in qualsiasi momento chi stesse viaggiando e verso dove. Viglilanza totale e permanente.

Che però non riusciva a contenere del tutto la voglia di rivoluzione, la rabbia di una popolazione segregata e impoverita dall’abbraccio mortale tra falangisti, Chiesa cattolica e borghesia. In quell’estate di 59 anni fa, nella notte fra il 29 e il 30 giugno scoppiarono a Barcellona tre bombe: una in un locale della Falange Española; la seconda nel Colegio Mayor Monterols dell’Opus Dei; la terza nell’Instituto Nacional de Previsión, senza causare vittime o danni rilevanti.

Il 19 settembre furono arrestati tre giovani anarchici della Federación Ibérica de Juventudes Libertarias, Fijl: lo studente di chimica Jorge Conill Valls e gli operai Marcelino Jiménez Cubas e Antonio Mur Peirón. Tre giorni dopo, un rapido processo emise le seguenti condanne: Jorge Conill a 30 anni di reclusione, Marcelino Jiménez a 25 e Antonio Mur a 18. Ma il Capitano generale di Catalogna trovò che la condanna fosse troppo morbida e rimandò il verdetto al Tribunale militare per un nuovo processo. I tre anarchici furono torturati per 23 giorni dai poliziotti della Brigata politico-sociale guidata da Antonio Juan Creix.

La Spagna provava ad attirare capitali stranieri ma il tessuto produttivo era ancora arretrato: più di un terzo degli occupati erano nell’agricoltura, c’era una notevole migrazione interna ma questo aumentava anche i fermenti sociali tanto che la borghesia iniziava a pensare a una soluzione di ricambio, una sorta di transizione morbida. «Gli operai spagnoli all’offensiva» era il titolo, a settembre del 1962, di Bandiera Rossa, organo dei Gruppi comunisti rivoluzionari, la sezione italiana della IV Internazionale, attentissima agli avvenimenti iberici di quella fase. Livio Maitan, nell’editoriale di quel numero scriveva che si era davanti a una «svolta decisiva nella situazione della Spagna». In quella fine dell’estate un’alluvione aveva ucciso centinaia di persone, a Barcellona, rivelando la fatiscenza di case, fabbriche e del territorio.

Il giovane veronese Alberto Tomiolo prendeva quei treni con lo zaino inzeppato di volantini antifascisti, e non solo volantini, dalla Catalogna a Saragozza. Aveva 23 anni, studiava Filosofia a Milano ed era un socialista di sinistra, avrebbe seguito Lelio Basso fuori dal Psi dopo l’apertura della controversa stagione del primo centrosinistra. Fu proprio in quel viaggio in Spagna, una missione per conto della «Defensa interior» del movimento libertario spagnolo che Tomiolo, allora ventitreenne, aveva conosciuto i tre anarchici arrestati. Con lui c’era un altro giovane socialista “bassiano” di Verona, Vittorio De Tassis (detto «Vic» o «Lenin») e due anarchici milanesi Luigi Gerli, 22 anni e Amedeo Bertolo, 21 anni.

Il tempo stringeva ed era probabile che il nuovo Consiglio di Guerra non avrebbe tardato a condannare a morte i tre in ossequio all’ordine del Capitano General. Dopo aver preso contatti con alcuni cattolici di sinistra che provarono inutilmente a spingere l’arcivescovo di Milano (Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI) a prendere posizione, quel gruppo di antifascisti ebbe un’idea mai sperimentata nell’Italia del dopoguerra: “invitare a pranzo” il console spagnolo di Milano. Ma il Conte di Altea era in vacanza in Spagna. Così la scelta ricadde sul viceconsole onorario, Isu Elìas, 55 anni, origini polacche e un curriculum di tutto rispetto. Elìas nel ’45 a Milano, era cancelliere del consolato spagnolo nella Repubblica di Salò, avrebbe aiutato i genitori di Claretta Petacci a lasciare l’Italia con passaporti spagnoli; anche Marcello, il fratello di Claretta, quando fu fermato dai partigiani con Zita Ritossa e fucilato, viaggiava su un’auto con i contrassegni iberici e aveva un passaporto spagnolo.

La sera del 27 settembre uno di loro, spacciandosi per il vicesindaco di Milano (cioè il dc Luigi Meda) telefonò a Elias per dirgli che il suo segretario lo avrebbe prelevato, il giorno appresso, per andare alla Taverna della Giarrettiera, un “tempio” dell’ossobuco raccomandato dalla Guida Michelin. Ma era un invito a pranzo con pistola.

Il “segretario” era in realtà De Tassis e, col vestito della festa di Bertolo, Tomiolo, l’unico del gruppo già patentato e padrone dello spagnolo. Una volta seduto Elìas vide piombare, pistole in pugno, Gianfranco Pedron e Amedeo Bertolo nell’abitacolo della Giulietta bianca presa a noleggio a Verona per 31mila lire. Era mezzogiorno e un quarto del 29 settembre. I congiurati antifascisti erano in tutto otto, metà milanesi anarchici (con Gerli, Bertolo e Pedron agì anche Aimone Fornaciari) e metà socialisti rivoluzionari scaligeri (gli altri due furono Giorgio Bertani, poi divenuto un editore legato ai movimenti della sinistra extraparlamentare, e Giambattista Novello-Paglianti). Una eterogeneità idelogica che Bertolo giustificherà con ragioni logistiche e che sarà alla base di una diffidenza reciproca e una memoria non condivisa del gesto.

L’operazione costò un’ottantina di migliaia di lire e i rapitori dovettero fare una colletta per comprare da mangiare per l’ostaggio e il suo custode: zuppe e cibo in scatola. Fu il primo rapimento politico nell’Italia uscita dalla Liberazione. Molti anni dopo, due post-fascisti in Parlamento, Mantica e Fragalà – gente che è passata dall’Ordine Nuovo rautiano ad An transitando per il Msi – avrebbero detto che quello era stato l’inizio del terrorismo in Italia.

Elias, al processo, racconterà che la Giulietta era guidata in maniera insensata e che per un pelo non si schiantò contro un tram. Sbagliando qualche bivio e bruciando qualche semaforo il gruppo si diresse a nord, verso Varese, a soli 5 km dal confine con la Svizzera. Lì Pedron aveva la disponibiltà di un casale scalcinato vicino a Cugliate Fabiasco, 178 abitanti a una cinquantina di km da Milano. Il casolare durante la Resistenza era la base operativa degli uomini della formazione Lazzarini.

Il vice-console franchista ci arrivò bendato con occhiali da sole incerottati fuori e tamponati dentro con la garza. Il fascista tremava di paura ma i suoi rapitori lo tranquillizzarono spiegandogli il progetto. Da Parigi, intanto, vennero spediti i comunicati stampa. Fu un successo “di pubblico e di critica” sulla stampa di mezzo mondo. Il piano prevedeva che l’ostaggio fosse consegnato a certi anarchici spagnoli che lo avrebbero liberato a Ginevra in una sede delle Nazioni Unite. Una lettera spedita alla moglie e al quotidiano milanese Stasera, vicino al Pci, spiegava: Sequestriamo il viceconsole di Spagna a Milano, per cercare di impedire l’esecuzione capitale di tre giovani antifascisti condannati a Barcellona. Il dottor Elías non corre nessun pericolo. Garantiamo la sua liberazione non appena, grazie alla notizia del sequestro, si sarà fatto sapere al mondo il triste destino dei nostri tre compagni a Barcellona. Viva la Spagna Libera!

La Spagna provò a cavalcare la linea della fermezza: «il sequestro non può ottenere alcun effetto; se anche rapissero tutti i diplomatici, ciò non influirebbe minimamente sulla condotta del governo spagnolo» dirà il diplomatico giunto a Milano per sostituire Elìas.

Secondo gli anarchici, i socialisti veronesi non avrebbero dovuto avere nessun ruolo nella gestione politica dell’azione e i rapporti di Tomiolo con un giornalista di Stasera (gemello del romano Paese Sera e dove in quel periodo lavorava un giovanissimo Giuliano Giuliani) vennero considerati una trama alle loro spalle al punto da spingerli a liberare immediatamente il viceconsole consegnandolo a un giornalista – Guido Nozzoli de Il Giorno – che sarebbe arrivato a Cugliate il 2 ottobre. Ma lo scoop lo avrebbe fatto Nino Puleio, giornalista del settimanale Abc che soffiò l’ostaggio al collega grazie a una soffiata. Detassis credeva fosse Nozzoli il quale al suo arrivo al casolare lo trovò deserto. La polizia arrivò tre ore dopo perché si era persa nei boschi circostanti.

Tre giorni dopo la liberazione di Elias, il 4 ottobre 1962, il “covo” va a fuoco, forse il mozzicone acceso di uno dei tanti curiosi, forse una ritorsione fascista.

Nella redazione di Abc, spregiudicato settimanale dell’epoca, il viceconsole venne affidato al capo della squadra mobile. Poco prima gli anarchici avevano spedito un comunicato all’Ansa: «Comunicato della Fijl (Federación Ibérica de Juventudes Libertarias)

I giovani del mondo libero non possono ignorare i crimini che commette il governo franchista contro la libertà e la vita dei poveri spagnoli. Il sequestro è stato organizzato per richiamare l’attenzione dell’opinione pubblica mondiale riguardo alla triste sorte dei tre giovani anarchici condannati a Barcellona. Nostro obiettivo è quello di suscitare alle persone oneste e democratiche del mondo intero, un moto di solidarietà morale e materiale nei confronti del popolo spagnolo. Rilasciamo, come promesso, il viceconsole, per dimostrare che i nostri metodi non sono come quelli che utilizzano Franco e la sua polizia falangista. Milano, 1° di ottobre».

Il primo ad essere arrestato fu Pedron, studente di Agraria, a cui la polizia risalì grazie alle dichiarazioni di chi gli aveva messo a disposizione il casolare. Poi fu la volta degli altri (compresi tre giornalisti di Stasera) tranne Bertolo che era arrivato a Parigi con un itinerario tortuoso Milano-Genova-Carpignano Sesia-Domodossola.

Intanto la diplomazia era al lavoro. Underground. Il 5 ottobre 1962, il Consiglio Supremo di Giustizia Militare di Madrid giudicò nuovamente Conill, Jiménez e Mur. Il pm, colonnello Rafael Díaz Llanos, chiese la pena di morte per il primo e l’ergastolo per gli altri, ma il Tribunale confermò la sentenza emessa il 22 settembre (30 anni per Conill e 15 per i suoi due compagni). L’Associated Press (AP) commise un errore clamoroso con un lancio di agenzia secondo cui Jorge Conill era stato condannato a morte. La fake news fu ripresa da numerosissimi giornali e il Consolato Generale di Spagna fu “assediato” da manifestanti antifranchisti spingendo finalmente l’arcivescovo Montini a scrivere al generale Franco:

«A nome degli studenti cattolici milanesi e mio personale, prego vostra eccellenza di usare clemenza nei confronti degli studenti lavoratori condannati affinché possano essere salvate vite umane e sia chiaro che l’ordine pubblico in un Paese cattolico possa essere difeso diversamente che in Paesi senza fede e ai quali non appartengano i costumi cristiani». Era l’8 ottobre.

La storia stava facendo il giro del mondo. Si mossero tutti i grandi del tempo, Giovanni XXIII, Kennedy e Krusciov. Il franchismo, sebbene non ancora fuori dalla storia, era comunque isolato. Agli antifascisti in galera arrivavano centinaia e centinaia di lettere da parte di un’umanità solidale e combattiva ma anche da parte di ragazze innamorate. Gli eroi erano giovani e belli. Il caso irruppe nelle trattative per il governo di centrosinistra: per Tomiolo e compagni era pronta, annunciata dello stesso Nenni, una candidatura da capolista nel caso in cui fossero stati condannati. Come fu per Valpreda una decina di anni dopo, incastrato per Piazza Fontana quando i servizievoli servizi avevano confezionato la pista anarchica e candidato dal gruppo del Manifesto alle politiche del ’72.

Il 13 novembre si apre a Varese il processo, con un clamoroso colpo di scena. Amedeo Bertolo, l’unico a non aver rispettato il patto di consegnarsi se uno solo degli antifascisti fosse stato preso, riuscì ad arrivare in tribunale facendosi passare per praticante di un avvocato, beffando i carabinieri dentro e fuori il Palazzo di Giustizia e si identificò di fronte ai giudici. Il 21 novembre si tenne l’ultima udienza contro gli accusati e la giuria entrò in camera di consiglio.

Dopo due ore furono emesse le seguenti condanne: otto mesi di carcere a De Tassis; sette mesi e venti giorni a Bertolo, Pedron e Tomiolo; sette mesi a Gerli; Bertani e Novelli-Pagliani furono condannati rispettivamente a sei e cinque mesi; cinque mesi a Fornaciari. Le altre condanne furono: cinque mesi a Sartori; quattro mesi ai giornalisti Nobile e Dell’Acqua. Vincenzo Vaccari invece fu assolto. Tutti gli imputati ebbero la sospensione totale della condanna, la non iscrizione dei condannati nei casellari giudiziari e la liberazione immediata. Nella sentenza i giudici, presieduti da Eugenio Zumin, riconobbero che gli imputati avevano «agito per motivi di particolare valore morale e sociale», un’attenuante prevista dal famigerato Codice Rocco ma applicata solo nei casi di delitto d’onore, come all’epoca venivano definiti i femminicidi nella cattolicissima Italia. Il processo si trasformò in un gigantesco atto di protesta e di propaganda antifranchista, così come già era successo il 13 dicembre 1950 nel processo di Genova contro gli italiani Gaspare Mancuso, Gaetano Busico e Eugenio de Lucchi, autori dell’occupazione del consolato di Spagna a Genova, l’8 novembre del 1949.

Jorge Conill fu incredibilmente ingrato con i compagni che di fatto gli salvarono la vita. In carcere, Conill scriverà più di trecento libri, cinque brevi opere teatrali, poesie e relazioni. Abbandonò l’anarchismo e si unì al PSUC, partito comunista catalano del quale sarebbe stato leader politico di Barcellona dove fu vicepresidente del Consiglio Provinciale. La fiaccola dell’anarchia si sbiadì prima nelle posizioni eurocomuniste per spegnersi nel PSC, filiale catalana del PSOE. Conill, morto nel ’98 a 59 anni, attribuì la sua salvezza all’intervento di Montini, anche se in realtà il futuro Paolo VI intervenne pubblicamente solo l’8 ottobre, quando cioè il Tribunale aveva già confermato la condanna a 30 anni di carcere.

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