Intervista con Enzo Traverso, storico italiano che vive negli Stati Uniti, sugli usi che la sinistra può fare del passato per immaginare il suo futuro, mentre esce il suo ultimo libro “Revolution” [Joseph Confavreux]
Enzo Traverso insegna storia intellettuale alla Cornell University negli Stati Uniti. Per Mediapart, ripensa alle elezioni presidenziali francesi; se sia possibile o meno attingere a una “malinconia di sinistra”, secondo il titolo del suo libro precedente, per superare le sconfitte; e cosa possiamo ereditare, rileggendo la storia, da questo termine, travolgente e seducente, di rivoluzione.
Nel suo ultimo libro, Revolution – A Cultural History, recentemente pubblicato da La Découverte, Enzo Traverso utilizza testi, momenti della storia e numerose immagini per sviluppare una narrazione storica in grado di rendere conto del fatto che, per citare il filosofo Daniel Bensaïd all’inizio del suo libro, “la rivoluzione senza etichetta né maiuscola rimane necessaria come un’idea indeterminata di cambiamento e una bussola di volontà. Non come un modello, uno schema prefabbricato, ma come un’ipotesi strategica e un orizzonte disciplinante”.
Contro una storiografia che riduce, sul versante conservatore, il momento rivoluzionario a essere solo un’esplosione di violenza, ma anche una tendenza diffusa, anche tra alcuni ricercatori impegnati a sinistra come lo storico britannico Eric Hobsbawm, consistente “nel descrivere il fallimento delle rivoluzioni come un esito ineluttabile”, Enzo Traverso rifiuta di operare una “selezione tra rivoluzioni buone e cattive, una distinzione tanto difficile quanto sterile, poiché le rivoluzioni non richiedono di essere idealizzate o demonizzate”.
Questa rilettura della storia delle rivoluzioni potrebbe, secondo lui, far luce sul “grande dilemma del nostro tempo”, cioè “il conflitto tra la rassegnazione e la speranza, tra la capitolazione e la ricerca ostinata di un’alternativa, tra l’abbandono e la rinascita, tra la tragica impotenza di fronte all’entità delle sconfitte e lo sforzo disperato di resistere”.
In effetti, per il ricercatore, «se le rivoluzioni del nostro tempo devono inventare i loro propri modelli, non possono farlo da zero, senza incarnare, cioè avallare la memoria delle lotte passate, siano esse conquiste o, più frequentemente, sconfitte. Non c’è dubbio che si tratta di un’elaborazione del lutto, ma anche di allenamento per le battaglie future. “Elaborare” il passato è necessario, non solo perché ci sono troppi scheletri nell’armadio, ma anche perché non possiamo ignorare la presa che il passato ha su di noi».
Questa elaborazione presuppone prima di tutto che la rottura e la potenza delle rivoluzioni, che Walter Benjamin ha paragonato alla fissione nucleare, siano nuovamente sentite e comprese: un’esplosione capace di liberare e decuplicare le energie sepolte nel passato.
L’intervista
Qual è la sua lettura della campagna presidenziale francese e del suo risultato, e in particolare dello stato della sinistra?
Enzo Traverso: Anche se mi trovo dall’altra parte dell’Atlantico, ho seguito da vicino queste elezioni e sono stato molto colpito, come molti, dai risultati. Il primo sentimento è quello della frustrazione, perché per la seconda volta di seguito, la Francia si è trovata di fronte a un’alternativa tra un’estrema destra fascista e la destra neoliberale, un’alternativa tanto più deprimente perché questa volta tutti sapevano che era stata consapevolmente promossa e voluta dal potere.
Il secondo sentimento dominante è la preoccupazione, perché questo secondo turno costituisce uno specchio distorcente che rivela il profondo iato tra le istituzioni della Quinta Repubblica e la realtà del paese, il che solleva domande sulla natura democratica delle istituzioni. Tuttavia, quasi nessuno discute questo grande problema, tranne Mélenchon che propone una VI Repubblica.
Il risultato di queste elezioni ha almeno il merito di chiarire il campo politico. Ci eravamo abituati a una continuità tra una destra e una sinistra che perseguivano più o meno la stessa politica. Macron è poi arrivato dicendo in sostanza: io incarno sia la sinistra che la destra che hanno incarnato una politica simile.
Contrariamente a quello che si sente spesso, mi sembra che oggi non abbiamo tre blocchi – l’estrema destra, la destra e la sinistra – ma due blocchi, che sono essi stessi fratturati. Da un lato, un blocco di destra e di destra radicale, dove ci sono innegabili differenze – si sono opposti al secondo turno -, ma non c’è un’incompatibilità insanabile perché questi elementi condividono fondamentalmente una visione economica e sociale neoliberale, e perché il governo al potere ha incorporato una serie di temi propri dell’estrema destra, che si tratti di autoritarismo, violenza verso i movimenti sociali o anche un lessico neo-conservatore: la lotta contro il wokismo”, “l’islamo-sinistra”, “l’indigenismo”, il separatismo, ecc.
Il dibattito tra Macron e Le Pen, tra le due tornate elettorali, non ha mai rivelato incompatibilità di visioni o di valori, solo occasionali scissioni sulle misure di politica economica per combattere l’inflazione o la disoccupazione. Macron non si è mai rivolto a Marine Le Pen dicendo: sei razzista, sei xenofoba o la mia visione della società non è la tua. Si è presentato come un tecnocrate più competente.
Dall’altra parte, c’è un secondo blocco, quello di una sinistra sulla quale possiamo avere certe riserve, che possiamo criticare, ma che è una sinistra degna di questo nome e costituisce un’alternativa al blocco che è attualmente al potere. Da questo punto di vista, una volta passata la rabbia legata al primo turno, e a queste candidature dannose – il PCF, i Verdi, l’NPA – il cui unico effetto è stato quello di impedire a Mélenchon di raggiungere il secondo turno – che avrebbe cambiato l’intero panorama politico -, possiamo riconoscere che la situazione non è disperata.
Qual è il progetto di questo libro intitolato Revolution? In altre parole, cosa possiamo dire di nuovo su un tema e su storie di cui sono state scritte tante pagine?
Esiste infatti un’immensa storiografia sulle rivoluzioni e il mio libro non pretende di portare nuovi elementi di conoscenza su questa o quella rivoluzione. La singolarità del titolo si riferisce alla natura del libro: un tentativo di rinnovare lo sguardo sulla storia delle rivoluzioni, uno sguardo che non è né guidato da uno spirito nostalgico che mira a riesumare un modello superato e obsoleto, né subalterno a una doxa che stigmatizza le rivoluzioni come fonte ineluttabile di totalitarismo, qualunque siano le aspirazioni e le utopie che portano.
Si tratta dunque di riabilitare il concetto di rivoluzione come chiave d’interpretazione della modernità, mentre questo concetto è sfumato in mille modi diversi. Da un lato, tutto ciò che è nuovo viene abusivamente qualificato come rivoluzione, dal nuovo iPhone allo stesso Macron: ricordiamo il titolo del suo libro.
D’altra parte, molti eventi che una volta venivano chiamati rivoluzioni vengono ora letti in modo diverso. Basti pensare alla guerra civile spagnola, che oggi viene analizzata attraverso il prisma del concetto di genocidio, più in sintonia con i tempi. Nel 1919, non era più la rivoluzione tedesca o ungherese, ma un processo di “costruzione della nazione” in Europa centrale dopo la dissoluzione degli imperi centrali. Il maggio 1968 sarebbe stato il momento più festoso di una modernizzazione liberale della Francia. Questo offuscamento è stato anche accentuato dal concetto fuorviante di “rivoluzione fascista”, ora ampiamente utilizzato nel discorso storiografico.
Il concetto stesso di rivoluzione è diventato così sfocato, sfuggente, abusato e infine esorcizzato. Il mio lavoro corrisponde quindi alla preoccupazione di riabilitare questo concetto facendone uno strumento epistemologico di interpretazione del passato.
A proposito dei grandi movimenti recenti, da Occupy Wall Street a Nuit debout, da Gezi ai “gilets jaunes”, fino a Black Lives Matter, lei scrive: “Nessuno di questi movimenti ha fatto rivivere le discussioni strategiche del passato”. Come si spiega questo?
Da almeno dieci anni, stiamo assistendo a un grande fermento sociale e politico su scala globale: una protesta contro l’ordine dominante, inaugurata in particolare dalle rivoluzioni arabe nei primi anni 2010. Ma questo grande sconvolgimento ha raggiunto un’impasse, paralizzato dalla sua difficoltà a proiettarsi nel futuro.
I movimenti anticapitalisti degli ultimi anni non appartengono a nessuna delle tradizioni della sinistra comunista o socialista. Non hanno una genealogia cosciente e presunta. Probabilmente meno a livello dottrinale che a livello culturale o simbolico, mostrano molta più affinità con l’anarchismo: sono egualitari, antiautoritari, antirazzisti.
Poiché sono orfani – non si inseriscono in una continuità storica con la sinistra del XX secolo – devono reinventarsi. Questa è sia la loro forza – non sono prigionieri dei modelli passati – che la loro debolezza, perché non hanno memoria. Sebbene siano creativi, sono anche fragili perché non hanno la forza dei movimenti che, preoccupati di iscrivere la loro azione in una continuità storica, incarnano una tradizione politica.
Il paradosso è che tutti questi movimenti producono un’abbondanza di idee, teorie e critiche sproporzionate rispetto ai dibattiti del passato. Oggi, la discussione è incomparabilmente più ricca e più ampia, e si svolge in tutti i continenti. Ma questa abbondanza intellettuale non si è tradotta nell’emergere di un potente movimento politico. Ripensare e riappropriarsi della storia delle rivoluzioni può quindi essere un modo per reintrodurre l’idea che una rottura radicale con l’ordine dominante è possibile e per ripensare i mezzi con cui questa rottura può avvenire.
Perché la sinistra, per citare lei, “ha completamente disertato il terreno in cui, nel secolo scorso, aveva accumulato una notevole esperienza e registrato innumerevoli successi: la rivoluzione armata”?
La violenza è consustanziale alle rivoluzioni e credo sia necessario riconoscerlo. Tuttavia, le rivoluzioni del XX secolo si basavano su un paradigma militare nato all’indomani della Grande Guerra, in un momento in cui la sfera politica era stata rimodellata dai militari, subendo una grande trasformazione antropologica e culturale. Quest’epoca è finita, e le rivoluzioni di oggi non possono riprendere questo paradigma militare, anche se non possono dimenticare la violenza che ha costituito le rivoluzioni del passato.
La lotta armata è stata una caratteristica importante della storia della sinistra nel XX secolo – dall’ottobre 1917 al Nicaragua nel 1979 – ma non è più all’ordine del giorno. Era efficace – e probabilmente necessario – in certe circostanze storiche, ma non possiamo ignorare il suo carattere intrinsecamente autoritario e gerarchico, che è difficile da conciliare con l’intersezionalità dei movimenti sociali e politici di oggi. In un esercito non c’è democrazia orizzontale e il posto delle donne è sempre subordinato.
Tuttavia, l’evacuazione dell’idea stessa di lotta armata e di rottura violenta evacua anche una discussione che deve avere luogo. Come italiano, vedo che l’esperienza della lotta armata ha traumatizzato e paralizzato intellettualmente la sinistra. Nel dibattito italiano sulla guerra in Ucraina oggi la sinistra si schiera dietro al Papa in difesa di un pacifismo di principio che però non appartiene storicamente alla sua cultura.
L’idea non è certo quella di reintrodurre un modello strategico di lotta militare, ma di essere consapevoli che la via elettorale non è sufficiente per trasformare la società. La questione della violenza non può essere relegata nella pattumiera della storia, tanto più che ci sono ancora oggi paesi in cui la lotta armata rimane legittima. Basta pensare al Kurdistan o, più recentemente, all’Ucraina. La storia ci ricorda, dal Vietnam ieri all’Afghanistan oggi, che non esiste una potenza invincibile.
Nell’epoca del cambiamento climatico, la situazione dà ragione a Walter Benjamin quando contestava la famosa frase di Marx secondo cui “le rivoluzioni sono le locomotive della storia”, dicendo invece: “Può darsi che le rivoluzioni siano l’atto con cui l’umanità che viaggia in treno tira il freno d’emergenza”?
La metafora delle “locomotive della storia”, suggerita da Marx nel 1850 e diventata poi una formula popolare, cattura un immaginario collettivo radicato nell’idea di progresso. Si basa su una visione teleologica, perché il treno corre su binari ben definiti, la sua destinazione è nota e si tratta solo di accelerare la sua corsa. In questo immaginario, i rivoluzionari conoscevano il futuro, che credevano appartenesse a loro.
Quando guardiamo la storia intellettuale del marxismo e del pensiero critico, possiamo facilmente individuare le sfide a questa teleologia. Ma se ci concentriamo sulla cultura e gli immaginari della sinistra, possiamo vedere che questa idea era strutturante, persino dominante.
Se il futuro ci appartiene, le sconfitte che possiamo subire, anche le peggiori – che sia il colpo di stato in Cile, il fascismo, il nazismo, la guerra civile spagnola – rimangono incidenti di percorso, battaglie perse che non mettono in discussione la certezza della vittoria finale.
Walter Benjamin, nelle particolari circostanze storiche della seconda guerra mondiale e del patto tedesco-sovietico, in un momento in cui tutto sembrava perduto, suggerì un’idea completamente diversa di rivoluzione, paragonata a un segnale di avvertimento, un freno di emergenza.
Questa idea era inammissibile quando fu formulata, ma oggi risuona profondamente con la nostra sensibilità, con l’ecologia politica e i movimenti anticapitalisti contemporanei. Questi ultimi sono consapevoli che il mondo non va verso il progresso ma verso disuguaglianze mostruose, che una catastrofe ecologica sta arrivando, che un’alternativa è necessaria ma non inevitabile; è una scommessa sulla capacità degli esseri umani di trasformare il mondo.
Non solo siamo ancora di fronte all’alternativa tra socialismo o barbarie formulata all’inizio del XX secolo da Rosa Luxemburg, ma siamo di fronte a questa alternativa con la consapevolezza che il socialismo può diventare esso stesso un volto di questa barbarie.
Questa lucida osservazione è necessaria, ma non deve portare a una visione compiacente dei nostri predecessori, che furono indubbiamente ingannati da ingenue illusioni ma che fecero vere rivoluzioni.
Queste illusioni erano in realtà portatrici di una forza straordinaria, perché gli ultimi militanti avevano il sentimento di appartenere a un movimento che andava oltre il loro destino individuale. Se non crediamo più nel futuro, i nostri impegni diventano precari, fragili e dubbiosi, e restiamo paralizzati nel pensiero e nell’azione. Mi sembra quindi necessario reintrodurre un telos sotto forma di scommessa: non un futuro ineluttabile, ma un progetto da costruire.
Il suo libro precedente era dedicato alla “malinconia di sinistra” e alla forza di questa “tradizione nascosta”. Le sconfitte della sinistra non sono state troppo numerose negli ultimi decenni perché la malinconia non sia altro che una disperazione impotente?
Questo libro sottolinea che la malinconia è sempre stata repressa o soppressa all’interno della sinistra, che la vedeva solo come un segno di debolezza. Dopo le sconfitte delle rivoluzioni, questa malinconia, che era innegabile, divenne visibile, ma cominciò ad essere vista come un’espressione di rassegnazione o di nostalgia.
Ma penso che ci sia una malinconia produttiva che non è incompatibile con l’azione. Una malinconia performativa come quella analizzata da Georges Didi-Huberman nel suo libro Peuples en larmes, peuples en armes. Questa malinconia produttiva è stata presente durante tutto il XX secolo e fino ai giorni nostri, per esempio con il movimento Black Lives Matter, che è nato dal lutto per le vittime della violenza della polizia e si è trasformato in un movimento di rivolta.
Lo stesso si potrebbe dire delle “Madri di Plaza de Mayo” in Argentina, le cui processioni erano momenti di lutto ma davano una voce potente alla lotta contro la dittatura. Perciò dobbiamo aggrapparci a questa malinconia che genera l’azione. Ma c’è anche una malinconia riflessiva, che stimola un’elaborazione critica del passato, un ricordo politico, una elaborazione del lutto legata a una riflessione strategica sul presente.
Come non rimanere intrappolati in una storia che mostra anche che i pensatori rivoluzionari hanno difficoltà a sfuggire alla fantasia del progresso, anche se ciò significa cadere in forme di eugenetica e antiecologismo, come Trotsky?
Le esperienze rivoluzionarie – compresa la più importante di esse, la rivoluzione russa – sono portatrici di potenti utopie. La storia della rivoluzione russa è la storia di un paese martoriato da una devastante guerra civile, ma attraversato da un impulso utopico assolutamente straordinario. In questa rivoluzione, il progetto di cambiare radicalmente i rapporti sociali, il desiderio di liberare le menti e i corpi coesisteva con la richiesta biopolitica di ripulire la popolazione e di disciplinare i corpi destinati alla produzione, al compito ineludibile di ricostruire il paese; da un lato, la liberazione sessuale – l'”eros alato” di Alexandra Kollontai -, dall’altro, il taylorismo.
Questa utopia non aveva limiti. Era persino possibile pensare al socialismo come alla conquista dell’immortalità attraverso il progresso scientifico. Apparve allora il mito dell’uomo nuovo socialista, talvolta definito con caratteristiche eugenetiche: un essere umano superiore, il prodotto di una selezione pianificata.
Certo, a differenza dell’Übermensch nietzschiano, che emerge da un mondo di schiavi, l’Übermensch concepito da Trotsky e dai bolscevichi è il risultato di una società di uguali, ma il progetto è comunque delirante. Allo stesso tempo, il nuovo uomo socialista è visto come un padrone assoluto della natura, capace di modellarla e sottometterla alla sua volontà grazie alla sua padronanza della tecnologia. Riletti oggi, questi testi sono davvero molto spaventosi.
Ricordate l’affermazione di Claude Lefort che la democrazia trasforma il potere in un “luogo vuoto”, un luogo che chi esercita l’autorità pubblica può investire ma non possedere o appropriarsi. Le rivoluzioni contemporanee non sono forse sospese dal fatto che ci sono luoghi di potere, soprattutto economico, che sfuggono a questa visione del potere come luogo che il popolo sovrano potrebbe occupare?
Se definiamo la democrazia, come fa Claude Lefort, come un “luogo vuoto”, disincarnato, che non può essere occupato da un sovrano, dobbiamo riconoscere che, in virtù delle sue istituzioni, la Quinta Repubblica ne è l’antitesi. Da de Gaulle in poi, si è parlato molto di “bonapartismo”, nel senso di un potere esecutivo autonomo dal potere legislativo, stabilendo una sorta di stato di eccezione permanente.
Tuttavia, bisogna capire che oggi questo stato di eccezione non esprime l’autonomia del potere. L’esecutivo non diventa autonomo; al contrario, diventa l’esecutore di poteri esterni allo Stato. Ciò che caratterizza l’era del capitalismo globale è la subordinazione della politica all’economia.
Macron è un’incarnazione di questo capitalismo, ma questa tendenza è chiaramente visibile su scala europea. In Italia abbiamo avuto, a intervalli di dieci anni, i cosiddetti governi di unità nazionale guidati da banchieri: prima Mario Monti, poi Mario Draghi. La politica ha ammesso la sua subalternità ai poteri esterni.
Questo sviluppo ha implicazioni strategiche. Non basta conquistare il potere politico attraverso le elezioni, perché una volta al potere, la sinistra rischierebbe di essere paralizzata da poteri esterni come la BCE, il FMI o la Banca Mondiale.
Questi poteri esterni sono la fonte di un’impressionante produzione normativa che si impone agli esecutivi nazionali. Ciò significa che un processo di profonda trasformazione sociale e politica non può essere realizzato all’interno delle istituzioni democratiche esistenti; dovranno essere inventate nuove forme di deliberazione democratica e di sovranità sovranazionale.
Le rivoluzioni possono anche abbattere le norme?
Non ci sono rivoluzioni che rispettano le norme. Da Marx e Bakunin a Lenin, Rosa Luxemburg e Fanon, la teoria rivoluzionaria è una teoria della rottura e della sovversione. I pensatori rivoluzionari sono sempre stati molto più interessati all’opera di Carl Schmitt che a Hans Kelsen, il teorico del positivismo giuridico. Quando i bolscevichi arrivarono a Brest-Litovsk nel 1918 per negoziare una pace separata con la Germania e l’Austria, decisero di abolire la diplomazia segreta e di pubblicare tutti gli accordi riservati, il che era un modo per far saltare le norme.
Una vera trasformazione della società deve sfondare una gabbia normativa – anche europea – concepita proprio per impedire questo cambiamento. Mi sembra che la crisi greca del 2015 abbia illustrato bene questo dilemma. Se vogliamo cambiare il mondo, dobbiamo sfidare le catene normative.
Le rivoluzioni mettono in moto la società nel suo insieme, trasformano i dominati in soggetti politici che decidono il loro destino. Di conseguenza, non possono aver luogo senza dinamitare le istituzioni che sono state concepite per soggiogarli. La storia ci insegna che la costruzione di una nuova società è un percorso disseminato di insidie, ma nulla può essere fatto senza questa cesura originale e fondante.