Perché un festival italiano dedicato all’antifascismo dedica la sua serata clou a un giornalista australiano
“Assange: un giornalista che cercava la verità ma che è andato a cozzare con il potere”, lo definisce Angelo D’Orsi. Così iniziava il dibattito la sera di chiusura di Fino al cuore della rivolta, il Festival della Resistenza, che questo anno ha visto davvero un boom di presenze.
Julian Assange, giornalista, programmatore, attivista, promuove nel 2006 l’organizzazione divulgativa WikiLeaks, che mette on line circa 500.000 documenti, con lo scopo di smascherare “in diretta la faccia del potere”, come afferma dal palco la giornalista Stefania Limiti.
WikiLeaks giunge all’attenzione internazionale nel 2010 quando, con mezzi anche non leciti, fa trapelare una serie di notizie segrete fornite dall’analista di intelligence americana Chelsea Manning e dal consulente della National Security Agency, e Edward Joseph Snowde, con molti dati sensibili e delicati relativi soprattutto della guerra in Afganistan e in Iraq, compreso il video Collateral Murder che mostra l’uccisione (e occultamento dei cadaveri) di civili, compresi bambini, e di due reporter tedeschi della Reuter.
Consapevole dell’importanza dei file che aveva a disposizione, WikiLeaks decide di forzare il limite della legalità e li pubblica.
Da allora Assange diventa per gli Stati Uniti un nemico da debellare. Il giornalista, colto da mandato di cattura a Londra, vive 7 anni nell’ambasciata dell’Ecuador come rifugiato politico ottenendo nel 2018 la cittadinanza ecuadoregna. Ma l’elezione a nuovo Presidente dell’Ecuador di Lenin Moreno, cui già nell’agosto del 2018 veniva attribuita la decisione di estradare Assange negli Stati Uniti, “sospesa” la cittadinanza, provoca l’arresto di Assange, che viene imprigionato nel carcere di massima sicurezza Belmarsh – detto “la Guantanamo britannica”- dove, come ha denunciato Nils Melzer, relatore speciale delle Nazioni Unite sulla tortura, è stato sottoposto ad una lunga e durissima tortura soprattutto psicologica.
L’immagine di lui, trascinato a forza fuori dall’Ambasciata, ha fatto il giro del mondo, però il mondo si è mobilitato poco per lui.
“Nonostante i giornali di tutto il mondo abbiano saccheggiato il sito WikiLeaks, poi non hanno mosso un dito per lui”, ricorda D’Orsi.
Il 20 aprile 2022 il tribunale di Londra autorizza formalmente l’estradizione di Julian Assange negli Stati Uniti. La battaglia per l’estradizione è ancora in corso. I vari ricorsi presentati sono stati respinti, l’ultimo il 6 giugno. Amnesty International sta raccogliendo firme, a luglio più di 120 giuristi, avvocati e magistrati hanno firmato un testo di appello.
Se Assange venisse estradato, rischierebbe negli Stati Uniti 175 anni di carcere o la pena capitale per violazione dell’Espionage Act, del 1917, quasi mai applicato ma “riesumato” per questa occasione.
L’accusa ad Assange di avere violato segreti di Stato americani lede la libertà di stampa, un diritto-dovere proprio di ogni vera democrazia, previsto anche nel primo emendamento della Costituzione americana e nell’art. 19 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.
La democrazia si basa sul controllo degli atti del potere, ma se gli atti del potere sono occultati, il popolo non è più sovrano e si torna a quanto sosteneva Giovanni Botero Della Ragion di Stato, a fine ‘500: “lo stato è ciò che esercita un dominio fermo sui popoli”.
Noi dobbiamo fare la nostra la battaglia di Assange, che il potere vuole demonizzare come uno stupratore, un terrorista, una spia. Questo è un monito rivolto alla comunità internazionale degli Stati e a qualsiasi cittadino di uno stato democratico di diritto, in nome dei diritti dei giornalisti indipendenti, e della libera informazione, quindi della democrazia.