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Lo stradario coloniale: il passato imperiale che non passa

I nomi delle strade, immutati dall’epoca, dicono molto di come l’Italia sia in deficit di riflessione sul suo curriculum criminale

Quanto è rimasto nell’Italia di oggi del colonialismo, dell’Impero dell’Italia fascista? Tanto, troppo. A partire dai nomi delle strade.

Ed è proprio all’odonomastica coloniale che è stato dedicata una iniziativa pubblica, dal titolo Pagine rimosse che si è tenuta a Palazzo Marino a Milano, anche per il lancio dell’omonimo portale, commissariato dal Mudec (Museo delle culture di Milano) all’ Istituto nazionale Ferruccio Parri, il quale già nel 2022, aveva creato il portale I luoghi della memoria fascista.

“L’Italia ha condiviso con l’Europa mezzo millennio di dominio coloniale. Abbiamo decolonizzato questi territori, ma non le nostre menti”, ha esordito Nicola Labanca, ordinario di storia contemporanea, nel suo intervento di apertura.

Le tracce del passato coloniale rimangono scritte nella toponomastica di gran parte delle città italiane, senza che vengano interrogati i nomi dei carnefici o di battaglie a cui sono stati dedicati monumenti.

I primi nomi coloniali compaiono nell’Italia liberale, una drastica impennata di essi si ha in quella fascista, ma permane anche in quella repubblicana, sebbene in maniera meno marcata, fino agli anni ’70. Questo non deve storie stupire più di tanto, perché la legge che tuttora regola l’odonomastica è del 1927.

Oltre ai nomi delle località, come via Tripoli, Piazza Adua e simili, abbiamo ancora nomi delle nostre strade intitolati a militari carnefici, come il generale Graziani, o esploratori sanguinari come Vittorio Bottego.

“Ci sono vari gradi di responsabilità nel nostro passato coloniale: oltre alle categorie già citate, ci sono industriali che si sono arricchiti grazie al colonialismo, come Giovanni Agnelli, o uomini politici che sono stati leader colonizzatori, come Giovanni Giolitti, o giornalisti conniventi come Indro Montanelli”, osserva ancora Labanca.

E allora cosa fare di fronte al variegato stradale coloniale? Sostituire il nome di alcune strade oppure riconnotare quei luoghi. Ma, come osserva Labanca, “l’Italia fa soprattutto la politica dello struzzo” e tutto rimane come è.

Il racconto di chi ha subito le mire espansionistiche dell’Italia liberale prima e dell’imperialismo fascista poi non sembra trovare sufficiente spazio. Così come non lo trova quello di chi ha organizzato la resistenza all’occupazione italiana, di chi gli è sopravvissuto come figlio, figlia, compagna o concubina.

A questo racconto ci guida l’intervento del comitato Yekatit 12.19 febbraio, che prende nome dal giorno che, nel 1937, segna il momento più violento dell’occupazione italiana dell’Etiopia, quando, a seguito all’attentato a Rodolfo Graziani ad opera di due partigiani eritrei, l’esercito italiano scatena nella capitale Addis Abeba il più vasto massacro di persone inermi di epoca coloniale, a cui si aggiunge, nel quadro delle operazioni di repressione della resistenza all’occupazione, l’eccidio di chierici e fedeli nella cittadina monastica di Debre Libanos a maggio dello stesso anno.

“Noi siamo qui oggi” dice la componente milanese di Yekatit 12-19 Febbraio “perché abbiamo bisogno capire e raccontare cosa è stato rimosso, come è stato rimosso e perché continua ad essere rimosso. Abbiamo bisogno di altri linguaggi per decodificare il colonialismo di oggi e poterlo denunciare apertamente perché sia una consapevolezza diffusa e non una corte internazionale a giudicare l’intenzione genocidaria di uno stato verso un popolo”.

“Diversi musei – dicono a più voci dal pubblico i giovani di Yekatit – conservano ed espongono bottini di guerra e di conquista apparentemente inconsapevoli del rischio di esaltare le gesta di chi spesso li ha trafugati con violenza.”

Ci auguriamo che il museo della Resistenza, quando vedrà la luce a Milano, saprà raccontare anche quella al colonialismo, al fascismo e al razzismo.

Forte è poi l’emozione di sentire raccontare da Gabriella Ghermandi, scrittrice e attrice etiope da parte di madre e italiana da parte di padre, le vicende della famiglia, dolorosamente segnate dal colonialismo italiano.

Ghermandi legge anche estratti del suo romanzo, Regina di fiori e di perle, che percorre oltre cento anni di storia, dal tempo di Menelik ai giorni nostri, e si interroga sull’identità della memoria coloniale italiana.

Poi, Ghermandi si avvolge nei suoi abiti africani e intona in amarico le canzoni della sua infanzia e della sua adolescenza, etiope e, come la sua voce prima si era fatta romanzo, ora il suo romanzo si fa musica.

La voce di Gabriella, così come quella dei ragazzi di Yekatit, non è solo rivolta al passato, ma è vibrante per i diritti nel presente: “Nel corso degli ultimi 30 anni in Italia e in Europa la legislazione in materia di immigrazione criminalizza il diritto di migrare, ostacola il diritto di restare e con violenza ogni percorso di autodeterminazione. Decolonizzare significa avere una visione di mondo. Decolonizzare significa porre le basi di un nuovo modello sociale ed economico che non includa più lo sfruttamento delle risorse di una parte del mondo a favore di un’altra, uno sviluppo sociale con forti disuguaglianze; l’affermazione di privilegi e discapito dei diritti universali”.

La nostra società neoliberale, ancora intrisa delle logica coloniale (e non solo a livello odonomastico), vede i migranti come un pericoloso corpo estraneo da espellere o, al massimo, da integrare solo se funzionale alle esigenze del capitalismo. In questa prospettiva la globalizzazione assume le stesse caratteristiche del sistema coloniale.

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