In Survival of the Richest, Douglas Rushkoff va a fondo della fissazione dell’oligarchia tecnologica di proteggersi dalla fine dei tempi [Jared Marcel Pollen]
All’inizio di Survival of the richest. Escape Fantasies of the Tech Billionaires* (La sopravvivenza dei più ricchi. Fantasie escapiste dei miliardari tecnologici), Douglas Rushkoff è stato condotto per ore nel deserto in un lussuoso complesso isolato, dove ha incontrato un piccolo gruppo di miliardari con forti investimenti nel settore tecnologico. Gli uomini lo fanno accomodare e, dopo alcuni preliminari su cripto, AR e VR, gli chiedono quale sarebbe il posto migliore per costruire i loro rifugi dell’apocalisse: Nuova Zelanda o Alaska? E se assumessero guardie armate per proteggere questi rifugi, come potrebbero assicurarsi la loro fedeltà? (Per esempio, si potrebbe negare loro il cibo o fargli indossare collari disciplinari?). E soprattutto, come potrebbero isolarsi dalle persone che inevitabilmente cercherebbero il loro rifugio? Questi uomini si stavano preparando a un cataclisma imprecisato che chiamavano semplicemente “l’Evento”.
Rushkoff, che si è autoproclamato umanista e teorico marxista dei media, è da tempo una voce dissenziente nei confronti delle norme e dei costumi della Silicon Valley. Avendo collaborato e stretto amicizia con personaggi del calibro di Timothy Leary e Terence McKenna, Rushkoff ha fatto parte della sottocultura psichedelica e cyberpunk da cui è nato, tra la fine degli anni ’80 e l’inizio degli anni ’90, il moderno Internet orientato all’utente. Ha scritto una serie di volume che comprende, Present Shock: When Everything Happens Now (2013), Throwing Rocks at the Google Bus (2016), and Team Human (2019). Tutte queste opere cercano in qualche modo di ricordarci come lo spirito anarchico e comunitario delle prime tecnologie digitali – la libera condivisione di informazioni e idee, il sogno di una coscienza globale, l'”ipotesi Gaia” – sia stato compromesso dal potere delle grandi imprese. Alla luce di questi precedenti, potrebbe sembrare strano che Rushkoff, tra tutti, sia stato convocato da un gruppo di miliardari per rispondere a domande su come sopravvivere a un disastro globale.
Rushkoff sospetta che questi uomini sapessero che avrebbe condannato i loro piani e volessero vedere se potevano sostenere (e contrastare) le sue obiezioni. Non si trattava tanto di tecnicismi o di logistica, quanto piuttosto dello stress test morale e metafisico a cui avrebbero dovuto sottoporsi per portare a termine i loro piani. J.C. Cole – uno dei personaggi che incontriamo all’inizio del libro, ex presidente della Camera di Commercio Americana in Lettonia e devoto di Donald Trump – dice a Rushkoff durante un tour del suo Safe Haven Project, un’operazione agricola postapocalittica: “Mi preoccupano meno le bande armate che la donna alla fine del vialetto con un bambino in braccio che chiede cibo”.
Gli immobili a prova di apocalisse sono oggi un’industria redditizia e in costante crescita, con aziende come Vivos e Rising S che offrono rifugi di lusso per milioni di dollari. Il più grande al mondo è l’Oppidum, situato nella Repubblica Ceca, a circa 50 chilometri da Praga. Con una superficie di 323.000 metri quadrati, era originariamente un complesso militare, presumibilmente progettato come rifugio per gli alti ranghi del Partito comunista al potere all’epoca nell’eventualità di una guerra nucleare. La costruzione è iniziata nei primi anni ’80 e nel 2013 l’imprenditore ceco Jakub Zamrazil ha creato il “progetto Oppidum”, progettato per trasformarlo in un bunker di lusso da vendere al miglior offerente. Il progetto comprende sia una tenuta in superficie (circondata da alte mura e sensori di movimento) sia un bunker sotterraneo che vanta appartamenti di lusso completi di simulatori di luce naturale, cantine, giardini, gallerie d’arte, cinema e piscine, in modo che il suo proprietario possa mantenere uno stile di vita sontuoso.
Tutti questi uomini, scrive Rushkoff, hanno ceduto all’illusione di poter “guadagnare abbastanza denaro per isolarsi dalla realtà che stavano creando guadagnando in questo modo”. Rushkoff la chiama (con uno dei suoi tanti termini) “equazione dell’isolamento”. Ma questo è solo un sintomo di ciò che Rushkoff definisce ” Mindset”, una modalità di pensiero che egli si propone di esplorare dopo il suo strano incontro nel deserto. Il Mindset, “l’atteggiamento mentale”, in senso lato, è la tendenza a vedere gli interessi umani come asserviti a quelli del progresso tecnologico, o quello che il teorico dei media Neil Postman ha definito “tecnopolio”: la “sottomissione di tutte le forme di vita culturale alla sovranità della tecnica e della tecnologia”.
Il Mindset, sostiene Rushkoff, ha le sue origini nell’Illuminismo e nella rivoluzione scientifica. Si basa sulla convinzione che il progresso umano sia una curva ascendente continua e che non c’è situazione difficile (nemmeno la fine del mondo) da cui non si possa uscire con l’innovazione. È una mentalità Imperialista che esige un’estensione perpetua, considerando ogni cosa sul pianeta come una potenziale risorsa, un’occasione di dominio o un’opportunità di profitto. Ignorando le leggi della termodinamica e della crescita esponenziale, questa mentalità cerca la velocità di fuga definitiva.
Così, capiamo perché Elon Musk è ossessionato dal gettare le basi per la sua colonia extraplanetaria; perché Jeff Bezos vuole spostare l’industria pesante in orbita per mantenere le linee di rifornimento in caso di distruzione del pianeta; perché Mark Zuckerberg sta cercando di collegarsi al suo metaverso; o perché Ray Kurzweil vuole caricare la sua coscienza su una nuvola. Sono tutti aderenti al Mindset: credono di potersi mettere al riparo da un disastro per poi rifare il mondo a loro piacimento. Il futuro del progresso tecnologico, sostiene Rushkoff, è ora un gioco finale sperimentale in cui i più ricchi e i più potenti fanno a gara per trovare una via di fuga; non si tratta tanto di elevare l’umanità quanto di elevarsi al di sopra di tutti noi.
Ci si potrebbe chiedere: cosa c’è di sbagliato nel considerare la tecnologia come un risolutore di problemi? O nello sviluppare soluzioni che ci proteggano dal disastro? In linea di principio, nulla. Ma come Rushkoff è attento a ricordarci, facendo appello ai ricchi ed esaltando le loro invenzioni, “perpetuiamo il mito che solo un’élite tecnocratica possa risolvere i nostri problemi”, che serve a “distrarre e scoraggiare il resto di noi dall’apportare cambiamenti sostanziali al nostro modo di vivere”. Questa visione è diventata nota (con disprezzo) come tecno-soluzionismo. Rushkoff sottolinea che le tecno-soluzioni sono troppo spesso “informate dai valori insiti nella tecnologia stessa: crescita esponenziale, automazione a scapito dell’intervento umano, slancio in avanti, “piattaformizzazione” e disprezzo per le condizioni esistenti sul campo”. Inoltre, incoraggia una visione gamificata della vita: considerare il mondo come una sorta di sistema che può essere hackerato o riavviato se solo concediamo a chi ha il potere di farlo risorse illimitate per realizzare i propri piani.
Le soluzioni tecnologiche riflettono invariabilmente i tratti dei loro proponenti, che sono il più delle volte speculativi, feticisti, antisociali e antistorici. Inoltre, sono tipicamente “libertarie” (nell’accezione che gli darebbe il presidente argentino Milei, ndt) e rifuggono da qualsiasi nozione di collettività o polarità. Desiderosi di essere liberi da controlli o responsabilità, i tecno-soluzionisti nutrono fantasie di sperimentazione sfrenata e di auto-sovranità. Un esempio è ReGen Villages, il prodotto di James Ehrlich, un ex progettista di videogiochi che insegna “resilienza ai disastri” alla Singularity University (che in realtà non è un’università, ma una società che funge da “incubatore” per gli imprenditori in modo che possano “immaginare e dominare il futuro”). Sebbene il suo sito web sia pieno di gergo tecnologico tipicamente vago e di dichiarazioni di missione ispirate, ReGen si propone di sfruttare il machine learning per la creazione di quartieri autosufficienti e resilienti, in grado di produrre il proprio cibo biologico, di procurarsi l’acqua e di generare la propria energia. L’azienda descrive inoltre i villaggi proposti come il luogo ideale per l’educazione dei bambini, la crescita di persone con obiettivi sostenibili e la creazione di “comunità sane e sicure in tempi dinamicamente mutevoli”.
Che cosa significhi in pratica tutto ciò non è dato saperlo. Ciò che è chiaro, tuttavia, è che le persone che probabilmente vivranno in questi insediamenti non saranno quelle più bisognose di cose come l’acqua potabile o le infrastrutture sostenibili. Come sottolinea Rushkoff, “piuttosto che [aiutare] un villaggio o un quartiere esistente a utilizzare principi più rigenerativi”, il progetto ReGen cerca di acquistare terreni vergini per creare una nuova comunità da zero. Sembra essere poco più che la fantasia di un ex game designer, un tentativo di dare vita a SimCity.
Un altro esempio è il Seasteading Institute, il progetto dell’ingegnere informatico, teorico economico e sedicente “anarco-capitalista” Patri Friedman, nipote di Milton Friedman, uno dei padrini del neoliberismo. Il Seasteading si presenta come un microstato sperimentale e una metropoli acquatica che “permetterà alla prossima generazione di pionieri di testare pacificamente nuove idee su come vivere insieme”. Progettato per i “visionari” e i cosiddetti “aquapreneurs”, fornirà ai ricchi e ai potenti “comunità oceaniche permanenti e autonome per consentire la sperimentazione e l’innovazione con diversi sistemi sociali, politici e legali”.
Il cofondatore del Seasteading Institute è Peter Thiel, che sta anche cercando di sviluppare una proprietà remota in Nuova Zelanda con la speranza di creare un rifugio per una “élite cognitiva” di “individui sovrani” (chiaramente ispirata ad Atlas Shrugged di Ayn Rand). Come sottolinea Rushkoff, questi imprenditori hanno sempre considerato il settore pubblico e civico come “antagonista dei loro grandi progetti”. I creatori di progetti come ReGen e Seasteading non hanno alcun interesse a vivere in modo sostenibile o ad alleviare le disuguaglianze economiche. Quello che vogliono è la loro sandbox personale, senza restrizioni da parte dei governi, della supervisione giudiziaria o della volontà collettiva. Queste start-up riflettono, se non altro, il desiderio di creare un nuovo mondo da zero e di scegliere chi ne farà parte.
Per gli aderenti al Mindset, ogni crisi è una potenziale opportunità di business. Rushkoff cita i TED Talks come esempio lampante. La formula di un TED Talk è la seguente: identificare un problema, riformularlo per far sì che le persone vedano il problema in modo completamente nuovo, sviluppare un piano aziendale che possa essere scalabile, quindi tenere un breve discorso che ispiri un numero sufficiente di venture capitalist a investire nell’idea. Piattaforme come TED servono a dare al venture capitalism la sua patina filantropica, in cui i tipi di problemi che richiedono azione collettiva e coordinamento – come la riforma dell’istruzione, la fame nel mondo, il cambiamento climatico e lo sviluppo urbano – possono essere riferiti a un’élite imprenditoriale i cui membri vogliono credere che i loro investimenti siano un modo per rendere il mondo un posto migliore.
Rushkoff osserva come questi progetti siano in grado di minare le iniziative pubbliche e statali, “dirottando i finanziamenti limitati verso le bufale moonshot – il tutto rendendo i più ricchi ancora più ricchi”. Per esempio, la Singularity University ha organizzato il concorso XPRIZE, che offre fino a 100 milioni di dollari alla prossima grande idea imprenditoriale che abbia il potenziale di “avere un impatto positivo su scala planetaria”. Queste proposte si presentano spesso sotto forma di soluzioni inedite e totalizzanti, o “game changer”. Una delle caratteristiche del tecno-soluzionismo, come nota giustamente Rushkoff, è che deve necessariamente reinventare il modo in cui pensiamo al problema in questione. Così, piuttosto che tentare di ridurre collettivamente la possibilità di estinzione qui sulla Terra, per esempio, la risposta diventa quella di lasciare del tutto la Terra. Per estensione, questa prospettiva presuppone che ci si possa aspettare che le persone agiscano nel loro interesse solo se ci sono incentivi redditizi davanti a loro, e qualsiasi soluzione che non sia redditizia non dovrebbe essere considerata realistica.
Questa è la logica alla base del “Great Reset”, una campagna avviata da Klaus Schwab, fondatore e presidente del World Economic Forum. La Great Reset Initiative è stata lanciata durante la pandemia di Covid-19 e si basa sul riconoscimento che dovremmo vedere “la crisi come un’opportunità”. La Great Reset sostiene una “forma migliore di capitalismo” e sarà guidata da investimenti in tecnologie dedicate a risolvere i problemi del cambiamento climatico, della povertà globale e della scarsità di cibo, con l’obiettivo di creare un mondo più “resiliente, equo e sostenibile”. Ancora una volta, invece di investire nei luoghi e nelle comunità che hanno più bisogno di essere risollevate, l’iniziativa incoraggia i governi a rafforzare il settore privato con un’ulteriore deregolamentazione e a concedere sussidi alle aziende e agli imprenditori che hanno modelli di business scalabili a loro sostegno. Per salvare il mondo, bisogna prima salvare il capitalismo.
Il cast di escapisti che incontriamo nel libro di Rushkoff è pienamente consapevole (si spera) che il capitalismo aggressivo, estrattivo e basato sulla crescita ha portato alla proliferazione di minacce per l’umanità, e che essi stessi ne sono complici. Ma piuttosto che fermare o tentare di annullare questi rischi, l’obiettivo è innovare per uscirne. Rushkoff lo paragona al desiderio di “costruire un’auto che vada abbastanza veloce da fuggire dai suoi stessi scarichi”.
Un elemento centrale del Mindset è che bisogna allontanare dalla vista e dalla mente le conseguenze dell’incessante estrazione di valore. Rushkoff lo chiama “effetto montavivande”, in riferimento all’invenzione utilizzata da Thomas Jefferson: In apparenza si trattava di un dispositivo per risparmiare lavoro, che eliminava la necessità di fare le scale dalla cucina alla sala da pranzo, ma in realtà aveva lo scopo di tenere le persone schiavizzate che servivano il cibo fuori dalla vista degli ospiti di Jefferson. Che si tratti di ReGen, Seasteading, della colonia di Elon Musk su Marte o dei miliardari che cercano un rifugio protetto nei loro bunker, è chiaro che i nostri aspiranti salvatori tecnocratici sognano di rendere il resto di noi invisibile. Così come il lavoro, il degrado ambientale e la sofferenza umana possono essere esternalizzati sul bilancio, allo stesso modo, con sufficiente ingegno, la realtà stessa può diventare un’esternalità.
Tutto questo è ben lontano dalla retorica tecno-utopica che ha segnato l’inizio del millennio. Coloro che sono sotto l’incantesimo del Mindset sono le stesse persone che una volta sostenevano che la tecnologia digitale avrebbe reso il mondo più aperto, inclusivo e democratico. Abbiamo assistito al deterioramento dell’ottimismo di questa narrazione, che ha lasciato il posto alla consapevolezza che il sogno di un progresso illimitato ci sta portando verso un disastro, che si tratti di una catastrofe climatica, delle conseguenze impreviste dell’intelligenza artificiale o di altro. Le innovazioni precedentemente propagandate dalla Silicon Valley come strumenti di emancipazione sembrano ora essere proprio quelle che stanno accelerando la fine del mondo. La marea montante che avrebbe dovuto sollevare tutte le barche potrebbe essere quella che ci affoga.
A nostra volta, assistiamo alla finta filantropia dei miliardari della tecnologia, che ci offrono una fantasia pseudo-utopica mentre si preparano alla Götterdämmerung (Il crepuscolo degli dei, ndt). Se tutto questo suona cinico o eccessivamente allarmistico, Rushkoff ci chiede di ricordare che abbiamo appena attraversato un periodo di prova con la pandemia Covid-19, quando “sono stati i ricchi a fare le bolle, e i poveri a sfidare il mondo reale per servirli”. Si stima che in quel periodo oltre 200 milioni di persone abbiano perso il lavoro, mentre si moltiplicava la ricchezza dei più grandi miliardari del mondo. Inoltre, la natura remota della vita moderna ha reso questa transizione relativamente facile. Molti di noi hanno potuto rimanere a casa proprio grazie alla nostra crescente dipendenza dalla tecnologia digitale, come se questa ci avesse in qualche modo predestinato al tipo di isolamento in cui un giorno potremmo essere costretti a vivere.
Avendo già assaggiato questa esperienza, c’è qualche motivo per credere di poter contare sulla generosità degli oligarchi? Possiamo riporre la nostra fiducia in un’élite che è chiaramente pronta ad abbandonarci? Facendo appello all’ingegno di pochi intrepidi miliardari, il tecno-soluzionismo rimane profondamente cinico nei confronti della democrazia e della possibilità di un’azione organizzata. Ipotecare il nostro futuro sull’altruismo non dimostrato di pochi miliardari significa rinunciare a qualsiasi nozione di agenzia collettiva. Ma Rushkoff insiste sul fatto che il suo libro non deve essere letto come una tragedia, bensì come una commedia nera, in cui questi personaggi finiranno per fallire nelle loro ambizioni di vivere per sempre. La risposta appropriata e morale a tale hauteur, come ci mostra Rushkoff, è la risata.