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Il marchese del Grillo in salsa mediorientale

Eccidio di cooperanti a Gaza e bombe su Damasco, Netanyahu cerca di allargare il conflitto fidando nello strabismo degli alleati  

Piglia uno stato canaglia. Uno che bombarda come e quando gli pare, e nessuno fiata. Che affama e massacra, ed è nel giusto. A nessun paese sarebbe concesso di fare il bello e cattivo tempo, in casa e a livello internazionale. A nessuno, tranne Israele. È un paradosso tutto contemporaneo, una novità storica, quello che accade oggidì. Non tanto il massacro permanente perpetrato in nome dell’autodifesa e della libertà; non tanto l’uso massiccio e sproporzionato della violenza organizzata e del terrorismo di stato; non tanto la giustificazione dell’intollerabile. Quanto la menzogna totale approvata come reale, il rovesciamento d’ogni logica, la follia come metodo, nella totale ignavia del mondo occidentale. Per la prima volta nella storia la vittima che osa alzare il dito sul carnefice viene zittita, derisa, spacciata per aggressore e accusatore fazioso. Strano strabismo, quello d’un mondo, d’un continente che da un lato pretende difendere la libertà dei suoi confini orientali e dall’altro non vede quello che succede ai suoi piedi e sulla propria testa.

Lo scherzo d’aprile di Netanyahu è duplice. Da un lato affama i sopravvissuti nella Striscia di Gaza per fiaccare le ultime resistenze di Hamas – una sua creatura, è bene ricordare – dando la caccia e uccidendo scientemente alcuni cooperanti in loco, non pago d’aver raso al suolo ospedali e quant’altro. Dall’altra bombarda in pieno giorno, con quei gioiellini tecnologici degli F35 gentilmente forniti dal main sponsor Usa, il consolato iraniano a Damasco, facendo fuori una mezza dozzina d’alti ufficiali dei Pasdaran impegnati in loco e sul fronte libanese. Fatto eclatante, palese violazione d’ogni norma internazionale, per quel che vale. D’altronde gli aerei con la stella di Davide non hanno mai smesso di ronzare sulla Siria, come altrove, dall’inizio della guerra di Gaza e prima, per bombardare ogni obiettivo utile alla causa di Sion, sotto al naso dei russi.

Duplice scherzetto ma un solo obiettivo, dunque. Allargare il conflitto, spingere l’Iran – sempiterno crocevia del male, obiettivo intermedio sulla via di Pechino – a fare quel passetto in più per dargli la mazzata finale, forti degli Usa alle spalle. Mostrare, più prosaicamente, che Tel Aviv può tutto, gli altri una ceppa. È il paradosso del marchese del Grillo in salsa mediorientale: io so’ io e voialtri non contate un cazzo. Biden si lagna e s’indigna, mastica amaro sbavando un po’, e forse qualche dozzina di voti d’onesti democratici li perderà pure sulla via di Washington, ma continua bellamente a staccare assegni e fornire crediti illimitati alla guerra israeliana. Solo a febbraio 18 miliardi di dollari, compresi altri bombardieri e imponenti forniture di bombe d’aereo e granate per carri, senza le quali la guerra si fermerebbe. Da parte sua Khamenei, la suprema guida della repubblica islamica, strepita e urla, promette vendetta ma incassa e deve far pippa, se non vuole stare al gioco di Bibi e infilare la testa nel cappio.

Quanto al leader del Likud, se è vero che Israele è una democrazia – totalitaria, al pari delle occidentali – il premier non può essere considerato l’unico artefice della politica di potenza israeliana. Fatto è che il vecchio Bibi – 75 anni a ottobre – non dà segni di cedimento. Ha più procedimenti di Trump e Berlusconi messi assieme, folle oceaniche strepitano davanti alla Knesset perché finisca il massacro e tornino gli ostaggi, da più parti chiedono elezioni anticipate ma lui resiste, inossidabile. Chi la dura la vince, recita un vecchio adagio, e Bibi è sulla strada giusta. Il resto del mondo che tiene banco e i media che contano plaudono allo scherzetto e alla propria fine, non alla fine della guerra. Ché finché c’è guerra c’è speranza, come recitava, ancora, il buon Sordi.

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