Food porn, oltre la satira del cibo spazzatura: Andrea Martella torna in scena con Hangar Duchamp
Foto di scena e in galleria Manuela Giusto, in hp dell'autore
All’inizio son onde sonore umane. Vermucoli spiaggiati sul palco a dimenarsi attoniti, evekante in calzamaglia nera sguscianti tra il pubblico, serpeggianti sul sedilame grigio, come le pareti della sala. Su tutti e su tutte, immoto, uno chef seduto su una sorta di trono, in mise nera da sacerdote del malgusto, com’è tendenza in certi locali di molta presunzione e poco costrutto. Di spalle, una scaffalatura da supermarket onirico. Oltre al padrecuoco, Walter Montevidoni, altra presenza maschile in scena Vlad Silter, sorta di Nosferatu che s’appalesa tra una coppia d’ancelle e tre sorelle (Vania Lai, Giorgia Coppi, Simona Mazzanti). E nel bujore vanno, schegge d’una sarabanda a tratti diabolica. Parole a caso, in libertà, buttate là come i rumori amplificati del cibo masticato, deglutito dileggiato. Come nella migliore tradizione dadaista ci s’affida alla semantica degli oggetti, al linguaggio non verbale, per affrontare il tema del cibo, della famiglia, della vita stessa. Questo è Food porn, prima che sulle scene si spenga il cerino, per mano del bel Nosferatu, e cali il sipario.
Scordatevi il Banchetto di primavera servito sul corpo d’una donna nuda, messo in scena da Meret Oppenheim negli anni Trenta e reiterato sul finire dei Cinquanta. Scordatevi il Nyotaimori, la pratica fetish nipponica, in gran voga in certi ristoranti d’oltreoceano anni fa, dove si mangia cibo giapponese sul corpo d’una modella ignuda. Nel suo ultimo lavoro con Hangar Duchamp, Andrea Martella e il curatore dei testi, Marco Cecili, si tengono alla larga dal sesso e vanno oltre la satira sul cibo spazzatura: il sottotesto sul disagio del cibo si alimenta del tema sull’esistenza, sull’essere in una società dei consumi che tutto sbriciola e divora, ingloba e massifica in un blog onnivoro.
È, nei fatti, un’opera prima quella andata in scena al Teatro Off della capitale. Finora eravamo una cover band, dice il regista, ora suoniamo una musica nostra. La banda c’è, la musica pure. C’è qualche accordo da perfezionare, inevitabile quando si lascia la mano dei padri, o dei nonni – Tzara, il sempiterno Duchamp – per camminare sulle proprie gambe. La strada è lunga e impervia, ma Andrea la martella di buon passo e di cuore, con un gruppo conscio delle proprie forze e delle debolezze in campo, delle difficoltà che si hanno quando si va su una via nuova, a tenzone con le novità.
Col dovuto rispetto e il bisogno di metabolizzare il nuovo, dunque, ecco quel che di notevole, perfettibile, inutile ci è parso vedere. Quel che ci pare funzioni assai e stia al passo con l’arte di un teatro che vuol dirsi contemporaneo è la compresenza scenica, la mescola all’abbrivio e oltre tra attori e pubblico. Il vigore scenico, espresso dagli interpreti e da una regia fisica e onirica al tempo stesso, come ormai sembra essere il marchio di fabbrica di Martella che martella.
Di perfettibile c’è la spinta verso una giojosa scanzonatura dadaista, e un luogo fisicamente capace di mettere in valore l’idea. Osare di più, forse è necessario se si vuole rinvigorire il messaggio dadaista, nei fatti. L’ottima Vania non è Meret, non diciamo debba smutandarsi faccia al pubblico, ma più d’una sbirciatina sotto le gonne e d’un ceffone si può. Poi il grigiore anodino delle pareti della sala, contenitore neutro d’arte contemporanea, non è il massimo. Un’atmosfera decadente, retrò, un ambiente postindustriale pur immerso nel bujo avrebbero garantito ben altra efficacia. Ma ognuno fa la guerra sul terreno e i soldati che si hanno, parafrasando un certo gobbo, e sta bene così.
D’inutile, infine, c’è la voglia di mettere tanta carne al fuoco, suonando corde assai coève, epperciò scontate, stonate. La critica alle relazioni familiari, all’autorità del padre, è fin troppo di moda e di comodo per essere innovativa. Osare di più significa anche andare oltre le mode imposte dal tempo che si vive. Non basta il nonsense, non si superano le imposture d’un tempo confuso con la confusione, serve chiarezza d’intenti e di lingua. Ma il dado è tratto, Cesare è in marcia con la sua truppa. Non sappiamo se Roma gli aprirà le porte, ma buona la prima.