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Strega, storie di donne sull’orlo d’una crisi d’identità 

Donatella Di Pietrantonio vince il premio Strega 2024. La famiglia come filo conduttore della sestina

Daje e daje pure le cipolle diventano aje, recita un motto d’area centroappenninica. Ci aveva già provato fin dagli esordi, nel 2009, e l’anno dopo non era andata oltre la dozzina. Nel 2017 con l’Arminuta, e dovette accontentarsi del Campiello e di farne un film. Ancora nel 2021, con Borgo Sud, non superò la cinquina. C’è riuscita ieri con L’età fragile. Donatella Di Pietrantonio è, manco a sorpresa, la vincitrice del settantottesimo premio Strega, bissando la vittoria all’edizione giovani. La dentista dell’infanzia, elegantissima nel suo tailleur rosanero messole addosso dallo stilista Etro, s’era già scritta il discorsetto, in vista della volata finale e prima d’attaccarsi al boccione dello Strega, lei che di suo è astemia. “Userò la mia voce scritta e orale in difesa dei diritti delle donne, che oggi non sono più così scontati”, ammonisce la scrittrice abruzzese barcollando dal palco, per l’emozione e il retrogusto del liquore più esiziale mai nato da alchimista etilico.

Donne: conculcate nei loro diritti, osteggiate, vilipese. Donne: fragilissime ma molto più forti d’un qualunque omaccione che le maltratti, o peggio le uccida, con termine che la neolingua ribattezza come femminicidio, sono al centro delle sue storie. Sempre donne, come nelle opere precedenti, sono protagoniste dell’Età fragile: madre e figlia ai tempi della pandemia, cucite a un filo di cronaca nera dell’altro ieri che sembra un secolo. Ché gli uomini fanno orpello, per chi a una certa deve ancora fare i conti coi guasti causati dalla figura del padre patriarca e candidamente l’ammette, ovunque ne parli, da Benevento al palco dello Strega Off, al Monk di Roma, come sul parterre di Villa Giulia. Vero è che nessuno scrive fuor di sé, dal proprio vissuto, ma non s’esce da certa scrittura – non chiamiamola letteratura, per carità d’intelletto e di patria – ombelicale e di genere. Vero è che il pubblico dei residuali lettori è in magna parte femminile, e ai paganti della balconata l’applauso va strappato.

Un applauso verace va tributato alla concordia del gruppo: pareva un’allegra comitiva di vecchi amici più che competitori in gara al più ambito premio letterario, cosa più unica che rara nella sestina finalista allo Strega. Sestina e non cinquina perché, come d’uopo quando non c’è un piccolo (medio?) editore in batteria, la fisarmonica s’allunga. Così, buon ultimo, s’infila nella cinquina Tommaso Giartosio, redattore di Nuovi Argomenti, e ultimo resta con Autobiogrammatica, poderoso testo di linguistica famigliare. Quinto Paolo Di Paolo con Romanzo senza umani, viaggio in una storia dove le emozioni fanno capoccella in una glaciazione della natura e dell’umanità. Quarta Raffaella Romagnolo con Aggiustare l’universo, storia di memoria nel primo anno di scuola dopo la fine della guerra mondiale. Eppoi Chiara Valeria, portavoce dell’inidentità di genere, con Chi dice e chi tace, ancora donne in quel di Scauri, paese natìo dell’autrice. Infine Dario Voltolini con la memoria del padre, malato terminale, in Invernale, a un soffio dalla vittoria. Con lo sguardo in copertina della pecorella sacrificale – icona dell’umanità belante e dolente – che ha suscitato qualche perplessità persino nella sponsor d’eccellenza del libricino, nientemeno che Gretina Tintin Thunberg.

La famiglia come filo conduttore della sestina, dunque. Ancora lei, fantasmatica mostruosità da annichilire; le donne come dimensione dell’esistenza, di genere apparentemente forte ma in realtà in fortissima crisi d’identità, al pari del maschio, al tempo dell’umanità transumante & gaudente che si getta nel baratro del transumano e del nulla, di cui una scrittura ancellare non riesce più a trovare la strada per farsi letteratura. Ma tant’è, da tempo andiamo sostenendo che la letteratura – figurarsi la scrittura – non è più in grado di raccontare compiutamente l’oggi, come altre forme di narrazione, e non sarà l’ultimo Strega a cambiare la rotta. Quando si serve sempre la stessa zuppa è difficile stupire il cliente, anche se alla fine l’ostinazione paga e il pubblico plaude. Dai e dai, le cipolle diventano agli, ma la pietanza ha lo stesso sapore.

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