La traiettoria calante di Pietro Giannini arriva sul palcoscenico della Sala Mercato, come nuova produzione del Teatro Nazionale di Genova
Genova, l’età dell’elaborazione di un lutto. Lungo oltre 4 anni. Alla vigilia di ferragosto 2018 crollava in una mattinata di pioggia il Ponte Morandi, una delle arterie più importanti della città, Portandosi dietro la vita di 43 persone, causando lo sfollamento di decine di famiglie e stravolgendo la vita di una intera comunità.
Oggi quel trauma, che ha segnato in profondità la carne e l’immaginario di una città, è materiale mitopoietico pronto per una rilettura/rammemorazione nel solco di un teatro civile italiano che – a partire dal racconto del disastro del Vajont di Marco Paolini – può contare su un repertorio di sciagure annunciate che purtroppo non conosce crisi di idee.
Tocca questa volta al giovane Pietro Giannini (classe 2000), che quel giorno aveva 17 anni, farsi interprete di un monologo che è momento di autocoscienza collettiva e riflessione personale di un protagonista suo malgrado, in qualità in qualche modo di sopravvissuto. Lui e tutti quelli che sul quel viadotto ci sarebbero dovuti passare e che per un contrattempo dell’ultimo momento – magari proprio la pioggia battente di quelle ore – alla fine non ci sono passati. E che, come lui, magari hanno vissuto l’esperienza paradossale di ascoltare, da vivo, l’urlo lacerante di una madre che lo ha creduto, per alcune ore durate un’eternità, sepolto sotto quelle macerie. Il privilegio atroce di gettare uno sguardo nello spiraglio, come lo strappo in un tessuto metafisico, nel sipario invalicabile tra i vivi e i morti.
Da questo vissuto la sua esigenza di raccontare, con la consulenza drammaturgica del Comitato Parenti Vittime Ponte Morandi, ciò che incredibilmente stato. Anzi di ricapitolare tutto ciò che in fondo già sappiamo ma stiamo già dimenticando nella rassegnazione di abitare in un Paese dove nessuno, se non i poveracci e la gente comune, paga per i propri errori e per i propri crimini. Per gli happy few, invece, oscene buonuscite e premi di produzione milionari come quelle dell’amministratore delegato Castellucci. Un Paese dove lo Stato svende un patrimonio pubblico immenso come la rete autostradale a un privato amico degli amici, meglio noto per la produzione di capi d’abbigliamento dalla griffe sopravvalutata. Ogni riferimento alla famiglia Benetton non è puramente casuale, cui il governo italiano nel 1999 iniziò a vendere quote crescenti di Autostrade per l’Italia. Consentendo così ai Benetton – che all’indomani della tragedia non ebbero neppure la decenza di sospendere la loro abituale reunion di famiglia di Ferragosto nella loro villa – un processo di integrazione di filiera con la già acquisita proprietà di Autogrill. E in più alla stupefacente condizione che se lo Stato (cioè tutti noi) avesse voluto riprendersi la concessione avrebbe dovuto pagare al gestore – anche in caso di grave adempienza (oh ma guarda un po’ alle volte le combinazioni) – la totalità dei ricavi stimati fino al termine del contratto di concessione. Che sarebbe come se – sottolinea in scena Giannini – un barista che sputa nel caffè dei clienti potesse essere licenziato per giusta causa. Ma gli si dovessero comunque pagare gli stipendi dei successivi vent’anni.
Detto fatto per Cassa depositi e prestiti (cioè ancora tutti noi) che si è ricomprata la rete per oltre 9 miliardi di Euro. In mezzo, prima di questa felice conclusione patrimoniale, una storia di ordinaria premeditata negligenza e di corruzione, di cemento e acciaio ammalorati dal micidiale aerosol di sale marino e fumi delle sottostanti acciaierie già pochi anni dopo la costruzione, di manutenzione mai fatta o fatta per finta, rimandata fino alla scadenza del settembre 2018 cui il ponte non sarebbe mai arrivato vivo. Di controlli farlocchi e report mai fatti o fatti per finta. Oppure semplicemente inascoltati e sepolti in qualche cassetto. Come i preoccupati avvertimenti dello stesso ingegner Morandi, che si era accorto dei precoci gravi problemi di quella sua creatura così slanciata, così ardita, così ambiziosa. Troppo ambiziosa di un’ambizione che era quella di un modello di sviluppo, di una città, di una nazione intera. Forse, come metafora, del mondo occidentale tutto.
Dopo la prima nazionale – lo scorso ottobre al Romaeuropa Festival nella sezione Anni Luce, dedicata ai giovani talenti emergenti – La traiettoria calante arriva sul palcoscenico della Sala Mercato, come nuova produzione del Teatro Nazionale di Genova.
«Il crollo del ponte scatena un effetto domino che investe le persone e le cose – afferma Pietro Giannini – La traiettoria calante può accettare sul palcoscenico un solo corpo, un unico testimone inerme, un Amleto moderno perseguitato dai fantasmi di chi era prima di lui ed ora non è più. La scena (del crimine) è nuda, niente più è rimasto; dopo le macerie, neanche più ricostruzione. In questo logorante vuoto, nell’assordante rumore dell’assenza, l’interprete può solo cercare di fuggire il buio attraverso la testimonianza, qualunque essa sia».
Lo spettacolo, sul cui sfondo scorre per tutto il tempo una ripresa video in soggettiva di un viaggio sulle autostrade liguri, si chiude sull’ascolto di un’intercettazione telefonica che dice tutto e anche di più e l’ostensione, come reliquia di un martirio, di una T-short a marchio Benetton insanguinata. Applausi per questo one man show, vergogna per tanti suoi protagonisti. Buio in sala. E anche fuori.