L’Organizzazione mondiale del commercio contesta alla Cina l’uso strumentale del quasi monopolio dei minerali che sono alla base di tanti prodotti tecnologici.
L’Occidente non molla il braccio di ferro con la Cina sulla questione delle terre rare. Stavolta a bacchettare il gigante asiatico è stata l’Organizzazione mondiale del commercio: «Il diritto sovrano sulle risorse naturali di un Paese non permette di controllare i mercati internazionali». Dopo i dazi e le quote volute da Pechino sulle esportazioni di questi preziosi metalli e minerali, indispensabili per la realizzazione di prodotti ad alta tecnologia, è arrivato lo stop dell’Omc. «La Cina non può invocare la sua politica di salvaguardia per giustificare restrizioni alle esportazioni se ne limita le forniture solo agli utenti stranieri e non per la sua industria nazionale».
Stati Uniti, Giappone e Unione Europea avevano, infatti, accusato Pechino di restrizioni sleali, dal momento che queste misure avrebbero dato al gigante asiatico un vantaggio competitivo ingiusto rispetto ai concorrenti. «La Cina, in quanto membro dell’Omc, ha violato una serie di regole dell’organizzazione agendo in modo discriminatorio e unilaterale», ha commentato la decisione espressa dall’Omc Luca La Bella, analista di affari asiatici. «Si è trattato a mio avviso di mandare un messaggio. Questa mossa di Pechino nel breve termine ha certamente dimostrato al mondo la capacità di fare uso politico di queste risorse di cui rappresenta il principale produttore, ma nel medio lungo termine emergono già i limiti di questo comportamento, ad esempio l’apertura di nuovi siti estrattivi al di fuori della sfera di influenza cinese. E poi danneggiare l’economia globale a lungo andare non conviene a nessuno».
Le terre rare ricoprono un ruolo di primo piano nell’industria dei Paesi più sviluppati, in quanto sono utilizzate in quasi tutte le applicazioni ad alta tecnologia che usiamo nella nostra vita quotidiana. Come ha spiegato in un comunicato l’Unione Europea: «Le terre rare sono utilizzate per produrre magneti altamente efficienti, leghe metalliche, fosfori, materiale ottico, batterie, ceramiche e polveri abrasive speciali. Questi sono, a loro volta, componenti chiave in molti prodotti, come le turbine eoliche, prodotti ad alta efficienza energetica, schermi piatti e display (led, lcd, plasma), hard disk, lenti delle fotocamere, applicazioni per il vetro, batterie industriali e acqua o attrezzature per il trattamento medico, per citarne solo alcuni».
La Cina detiene un monopolio di fatto su queste risorse strategiche. Si stima, infatti, che produca circa il novanta per cento delle terre rare mondiali. Perciò i Paesi industrializzati hanno sviluppato negli anni una vera e propria dipendenza dal Dragone. Le restrizioni introdotte da Pechino nel 2009 hanno causato un aumento dei prezzi in tutto il mondo, coinvolgendo alcuni dei maggiori produttori mondiali dell’industria automobilistica e dell’innovazione tecnologica. Tra questi i più noti sono Toyota e Nissan, che usano le terre rare per la produzione di motori ibridi ed elettrici, e Blackberry e Apple, che sono tra i giganti mondiali nella produzione di tablet e smartphone.
Da tempo, il flusso delle esportazioni delle terre rare dall’Impero di Mezzo proseguiva a singhiozzi. Ora dovranno essere rimossi tutti i limiti alle esportazioni, benché ci siano ancora sessanta giorni di tempo per appellarsi alla decisione dell’Omc. «La Cina presenterà appello, su questo credo non ci piova – sottolinea La Bella – credo però che in questo momento di fragile ripresa dell’economia globale e anche alla luce degli stessi problemi economici della Cina, a Pechino non convenga tirare troppo la corda sulle terre rare. Rischierebbe di infilzarsi sulla sua stessa spada».
Nell’estate del 2010 la Cina annunciò che avrebbe ridotto le quote di terre rare destinate all’export. L’estrazione di queste risorse, spiegarono dal governo centrale, comporta costi ambientali eccessivamente elevati, in quanto il processo produce una grande quantità di sottoprodotti tossici che andrebbero ad aggravare il problema dell’inquinamento. Sempre allo stesso scopo, mesi dopo il Consiglio di Stato diede il via a una serie di ulteriori tagli degli ‘stock’ in partenza dalla Cina.
Tuttavia, secondo i critici, i tagli hanno ben poco a che vedere con l’ecologia. In realtà, nasconderebbero la volontà di Pechino di trainare verso l’alto il prezzo globale dei metalli costringendo le aziende estere a rilocalizzare nel Paese.
«Sull’impatto ambientale c’è chiaramente molto da fare per diminuire gli effetti che l’attività estrattiva delle terre rare ha sulla salute e sul pianeta – spiega La Bella – ma ci sono anche dei limiti fisici. Questi materiali si trovano, infatti, in formazioni geologiche e dentro minerali tossici e radioattivi, a volte sono presenti solo in piccole quantità e pertanto ne vanno macinate milioni di tonnellate. Forse la risposta, come già sta accadendo, sta nella ricerca scientifica applicata alle tre “R” reduce, re-use, recycle, che mira essenzialmente al trovare modi ingegnosi per migliorare l’efficienza e ridurre la quantità dei materiali impiegati nelle tecniche produttive che sfruttano le proprietà fantastiche di alcune di queste terre rare. Una cosa è certa, non possiamo fare a meno delle terre rare, indietro non si torna».