“The meat Atlas”, L’atlante della carne, pubblicato dalla Fondazione Heinrich Böll, riporta “fatti e cifre sugli animali che mangiamo” e sull’impatto ambientale dell’industria mondiale delle carni. Scaricalo gratis da Popoff Quotidiano.
di Marina Zenobio
La produzione industriale di carne e dei suoi derivati si sta trasformando in un enorme problema di contaminazione ambientale e di saccheggio di terre e acqua. E’ anche uno dei maggiori fattori responsabili del cambiamento climatico e principale destinatario, a livello globale, di modalità di coltivazioni transgeniche. Se non bastasse, l’allevamento industriale in ambienti confinati si caratterizza per la sua crudeltà in quanto a condizioni di vita e morte riservate agli animali, e per la grande quantità di terapie antivirali e antibiotici a cui sono sottoposti. Questa modalità di allevamento ha già prodotto nuove malattie, come l’influenza aviaria o l’influenza suina.
Tutte le informazioni che è bene sapere sulle conseguenze degli allevamenti intensivi, che sta compromettendo il nostro ambiente e la nostra vita, fanno ora parte di “The meat Atlas. Facts and figures about the animals we eat” (Atlante della carne. Fatti e cifre sugli animali che mangiamo) pubblicato dalla Fondazione Heinrich Böll e promosso da diverse associazioni ambientaliste internazionali, tra cui “Friends of the Earth”, che ci svela tutto, o quasi, sugli impatti globali dell’industria mondiale delle carni e dei prodotti caseari e sulla ‘sostenibilità’ di una ‘dieta’ che foraggia un giro d’affari di decine di miliardi di dollari all’anno.
La principale critica ricade sull’eccessivo consumo di carne nei paesi industrializzati. Per fare un esempio europeo, in Germania si consumano 60 chili di carne pro-capite ogni anno (nei paesi in sviluppo la media è di 10 chili); questo consumo eccessivo è insostenibile per il disequilibrio che provoca a livello ambiente.
Barbara Unmüssig, presidente della Fondazione Böll, ha scritto che la produzione industriale di carne non significa solo una vita piena di sofferenze per gli animali e l’inquinamento ambientale, ma anche il consumo di grandi quantità di materie prime. E fa l’esempio di Argentina e Brasile, da dove proviene praticamente il 100 per cento della richiesta tedesca di soia importata come mangime per animali, quasi tutta proveniente da coltivazioni geneticamente modificate. Ciò significa che questi paesi, come nel caso di Argentina o Brasile, destinano sempre più terre coltivabili alla produzione di mangimi, in particolare soia la cui richiesta è in crescita anche dalla Cina. Il risultato è che i contadini vengono espulsi dalle loro terre dai grandi latifondisti e company dell’agro-industria.
Lo studio mette in guardia su “Un’altra importante conseguenza delle mono-coltivazioni di soia, che sta nell’utilizzo di grandi quantità di pesticidi e erbicidi, come il glifosfato che viene spruzzato dagli aerei sui campi, contaminando non solo il suolo ma anche l’acqua, modificando le condizioni e la qualità della vita degli abitanti che vivono in quelle regioni.
Il glifosfato, responsabile come detto dello sviluppo di nuovi agenti patogeni osservati negli animali, finisci anche nei piatti dei consumatori. Solo in Argentina si utilizzano 200 milioni di tonnellate di glifosfato. Dopo la Cina, gli europei sono i maggiori importatori di soia, per rispondere a queste richieste ormai la terza parte delle terre coltivabili, a livello mondiale, sono occupate da soia destinata all’alimentazione di animali d’allevamento industriale.
Ormai dovrebbe essere noto a tutti che per produttore un chilo di carne di manzo, allevato in modo intensivo, sono necessari 15.500 litri d’acqua, la stessa quantità di acqua richiesta per 12 chili di grano o 118 chili di carote. Produrre l’hamburger che finisce nel nostro piatto richiede più di 3,5 metri quadri di terra. La riduzione di terre destinate a coltivazioni per alimenti umani diminuiscono, diminuisce di conseguenza la produzione di vegetali che aumentano di prezzo, in un circolo che Barbara Unmüssig, senza mezzi termini, ha definito “vizioso e inarrestabile se non si mettono in atto misure alternative”.
Lo studio suggerisce dunque di ripensare il modo in cui produciamo carne, ma anche uova e latticini, e soprattutto bisogna mettere costantemente al corrente il consumatore dei costi nascosti. “È tempo di adottare nuovi paradigmi produttivi e sopratutto misure di controllo più severe”.
Scarica il pdf in inglese di: “The meat Atlas. Facts and figures about the animals we eat”