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Quando il manifesto ruppe col suo partito

In libreria per Ediesse, “Da Moro a Berlinguer. IL PDUP DAL 1978 AL 1984″. Ecco il capitolo che ricorda la rotturadefinitiva  tra il partito e il suo organo di stampa

di Valerio Calzolaio e Carlo Latini

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In tutti i 55 giorni (il periodo tra il rapimento di Moro e il ritrovamento del cadavere, 16 marzo-9 maggio 1978, ndr) ogni comunicato di una forza politica parlava ai gruppi dirigenti della Dc di Moro e degli altri partiti, alle forze sindacali e sociali, in parte all’opinione pubblica (per il tramite degli organi di informazione che li riprendevano), ai propri militanti che li aspettavano e leggevano con ansia e passione. I comunicati del Pdup venivano fatti subito pervenire alle sedi regionali e provinciali, a sezioni e gruppi per via di canali interni al partito. Avevano scarso rilievo sugli organi

nazionali, con l’unica eccezione del poco diffuso ma militante quotidiano «il manifesto». Solo lì (non sempre con la dovuta evidenza) era comunque possibile leggerli, meditarli, discuterli.

Fino all’inizio del 1978 «manifesto» e Pdup, giornale e partito, in sostanza si erano identificati, nella percezione dei lettori e nella commistione dei gruppi dirigenti. Tuttavia, da almeno un anno, i giudizi su molte questioni cominciarono a divergere fra collettivo del giornale e organismi del partito. La vicenda Moro fece emergere la radicalità delle differenze, la difficoltà di una composizione, l’eventualità di una separazione.

Immediatamente dopo le due direzioni nazionali del Pdup sul sequestro (18 marzo e uno aprile), se ne svolse una terza sulla «questione del giornale», l’8 e 9 aprile 1978 (dopo che il 4 aprile il giornale con un comunicato aveva espresso la propria autonomia dal partito). Questa volta l’organismo politico non ebbe introduzione e conclusioni unitarie. Ci fu una «proposta del collettivo del “manifesto”» (presentata da Parlato), ci fu l’ordine del giorno «proposto dall’esecutivo del Pdup» (e approvato a maggioranza, 26 voti) e fu votato anche un altro ordine del giorno «dei compagni del Piemonte» (prese 12 voti, 2 astenuti). L’11 aprile tutti i testi del conflitto tra Pdup e «manifesto» vennero pubblicati dal quotidiano accompagnati da due notizie: c’era il breve comunicato del Pdup in cui il partito ribadiva che la Direzione, «dopo un’ampia discussione», aveva deciso a maggioranza di non condividere le scelte politico-editoriali del quotidiano; c’era il corsivo in cui il quotidiano confermava «la sua autonomia» e annunciava il rilancio politico-

editoriale a partire dall’anniversario del 28 aprile. Da quel dì la lettura quotidiana del «manifesto» confermerà sempre e in vario modo che il giornale pensava e agiva con una linea diversa dal partito. La sostanza e il tono confermavano e sancivano una rottura che sarà definitiva [Essere giornalisti del quotidiano e dirigenti del movimento erano stati ruoli interscambiabili per tutti i primi anni: i giornalisti partecipavano all’attività politica, i dirigenti nazionali e periferici collaboravano alle pagine del «manifesto». Il gruppo del Manifesto, nato con la rivista nel 1969, dopo la radiazione dal Pci produsse un movimento-partito e, quasi subito, una cooperativa editoriale. Dal 1970 c’è stato un movimento politico organizzato e, successivamente, prima dal 1974 al 1978, poi dal 1978 al 1984 (con l’apporto di altre esperienze), un piccolo partito italiano, confluito nel Pci alla fine del 1984, il Pdup con una propria organizzazione autonoma e una propria coerente storia. Dall’aprile 1971 c’è stato anche un quotidiano che per alcuni anni si è identificato nel movimento politico organizzato e che, dopo la rottura del 1978, attraverso un complicato tragitto proprietario ed editoriale, è in edicola ancor oggi].

Lo scontro sulla trattativa e l’avvenuta rottura si manifestarono plasticamente sul quotidiano dal 20 al 22 aprile. Il 20 e 21 uscirono sul «manifesto» e su altri quotidiani le note del Pdup sulla trattativa. Il 21 «il manifesto» aderì all’appello di Lotta continua, firmato da tanti cattolici, intellettuali, socialisti. La Rai e molti altri organi di informazione riportarono notizie contraddittorie sul Pdup poco conoscendo le articolazioni interne al partito e le differenze con il quotidiano. Il 22, in un piccolo ma autonomo riquadro a pag. 4, si citava, il comunicato della Direzione del Pdup come diverso dalla posizione del «manifesto». Poi, il 28 aprile 1978 il quotidiano uscì con una veste grafica completamente rinnovata e l’editoriale di Luigi Pintor. Il giornale viveva una crisi finanziaria, non la prima, non l’ultima. Il partito aveva bisogno di un’immagine coerente, dopo un difficile decennio di divisioni e scontri. Entrambe le soggettività dovevano scegliere per rilanciarsi e, in parte, cambiare, non necessariamente in modo conflittuale; non furono forse capaci di tolleranza ed elasticità, anche se le crescenti e profonde differenze politiche contribuirono a rendere tutto più difficile.

La questione sulla quale più si fece notare «il manifesto» fu l’espressione usata da Rossana Rossanda il 28 marzo in un corsivo sul secondo messaggio delle Br, la questione dell’«album di famiglia» (nei giorni successivi fu ripresa anche da altri quotidiani): «Chiunque sia stato comunista negli anni cinquanta riconosce di colpo il nuovo linguaggio delle Br. Sembra di sfogliare l’album di famiglia: ci sono tutti gli ingredienti che ci vennero propinati nei corsi Stalin e Zdanov». L’affermazione colpì e resterà molto discussa. Si rimetteva di fatto in discussione l’estraneità del terrorismo rispetto alla tradizione comunista, un cardine dell’identità del Pci e della sua storia. Una frase buttata là fra le righe era un conto, una critica così radicale un altro e non poteva che suscitare indignazione e disorientamento, nel momento in cui i comunisti erano in prima linea nella lotta al terrorismo. L’album di famiglia ingenerò confusione, alimentò le strumentalizzazioni da parte della Dc, non aiutò a capire davvero le radici culturali e politiche del terrorismo. Il Pdup non condivise il concetto di «album di famiglia». Furono giorni convulsi e, nell’insieme, la stampa e gli intellettuali non diedero grande prova di sé. Non era facile raccontare l’inedito. E i brigatisti usavano strumentalmente la stampa. Sono stati letti e riletti gli articoli di quei 55 giorni: sagra della retorica, strumentalizzazioni e mistificazioni, disinformazione e falsificazione, appelli e controappelli, effetto straniamento. Gli organi d’informazione finirono per farsi portavoce del punto di vista degli inquirenti e di questa o quella forza politica.

Capire fu difficile per tutti, ancor più per i lettori.

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