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Cristiani di Palestina: La soluzione? Due popoli in uno Stato laico

«La formula “due Stati per due popoli” è un’illusione». «Non esiste soluzione militare al conflitto». «Fondiamo un Stato laico, unico per israeliani e palestinesi, ebrei, musulmani e cristiani». Ecco il punto di vista sul conflitto israelo-palestinese del direttore della Caritas di Gerusalemme e una proposta dell’ambasciatrice palestinese.

 

di Edoardo Bettella

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«La soluzione cosiddetta “due Stati per due popoli” è una mera illusione. Auspichiamo la fondazione di uno stato unico, laico e democratico. Mi chiedo perché, a questo punto, le autorità palestinesi continuino a perdere tempo. Si piegano alla strategia del governo di Israele, che non vuole la pace, né uno stato unico. Noi, invece, crediamo che la Palestina sia di tutti i suoi cittadini, di qualunque religione essi siano». Se a dirlo è un arabo palestinese, cristiano, cattolico e pure sacerdote (padre Raed Abusahalia) l’idea è di avere davanti un sognatore che vive sulla luna. Ma se la stessa cosa la sostenesse l’ambasciatrice palestinese in Italia, parlando di integrazione e uguaglianza per tutti? Forse non sarebbe più così assurdo pensarci. E forse mostrerebbe al mondo che contro la barbarie c’è un’arma più forte dei missili: i diritti.

 

Per quanto possa sembrare strano a tutti noi abituati a pensare al conflitto israelo-palestinese come a uno scontro tra ebrei e musulmani, in verità in Palestina ci sono anche dei cristiani. Sono pochi, meno del venti per cento della popolazione, ma fortemente radicati e convinti della loro identità e della loro millenaria presenza in Terra Santa. E con delle solide posizioni in merito alla guerra a Gaza.

 

Padre Raed, direttore generale della Caritas di Gerusalemme, è uno di loro. Si definisce, fieramente, arabo, palestinese, cristiano, cattolico e sacerdote. Per lui, questo è il vero spirito della Palestina: un crogiolo di culture, religioni e popoli, che si sono ritrovati a condividere la stessa terra, ognuno per le sue personali ragioni. È la culla delle tre grandi religioni monoteiste del mondo e, se spesso viene associata prevalentemente all’ebraismo e all’islam, in realtà la religione cristiana è molto radicata nel territorio. I cristiani che ci vivono sono fortemente consapevoli di essere nella terra dove, più di duemila anni fa, Gesù di Nazareth è nato, vissuto e morto. I luoghi più significativi della cristianità, quella vera, non quella della Chiesa di Roma, come la basilica della natività, il santo sepolcro, il monte Golgota, il fiume Giordano e via dicendo, sono lì, a due passi dal muro del pianto, il luogo più sacro per l’ebraismo.

 

Padre Raed, infatti, ci tiene a sottolineare che la situazione dei cristiani in Terra Santa non è paragonabile a quella dei fratelli in Siria o in Iraq, dove vengono perseguitati, torturati e uccisi. In Palestina la consapevolezza di essere in un luogo sacro alle tre maggiori religioni del mondo è molto forte, sentita da tutti. E vi è grande rispetto reciproco, per questo. «Siamo tutti uguali, vittime di una guerra che non ha un valore religioso, ma solo politico». La dimostrazione sono gli interventi umanitari che Caritas ha svolto durante l’ultima guerra dei cinquantuno giorni. «Dal primo giorno, abbiamo accolto tremila profughi, dandogli tutto il necessario per sopravvivere. Abbiamo attrezzato trecento classi scolastiche per i bambini che hanno perso tutto, abbiamo aperto diversi ambulatori per curare i più deboli da malattie dello stomaco, della pelle e dai pidocchi, per un totale di più di duemila malati. Cinquanta giorni di guerra ci sono costati centomila euro».

 

Gli aiuti sono stati devoluti indifferentemente, a musulmani, ebrei e cristiani, senza distinzioni, senza attribuzioni di responsabilità. Dice Padre Raed: «In questi giorni di guerra ho imparato due lezioni: la prima è che non esiste una soluzione militare a questo conflitto. Nessuna potenza militare al mondo può controllare e contrastare la volontà di un popolo che chiede la sua libertà. La seconda è che la guerra devasta le persone. Non solo nel momento stesso in cui un missile viene lanciato o una bomba esplode, ma a lungo termine. Si parla di almeno cinque anni. Dopo una guerra, bisogna ricostruire l’identità di un popolo. Il timore di Caritas, che è anche la nostra sfida più grande, è che, se e quando apriranno Gaza, la maggior parte dei cristiani (trecentodieci famiglie, circa mille e trecento persone) se ne andrà. Invece, dobbiamo lottare perché questa presenza millenaria non scompaia mai».

 

Viene, quindi, delineata una situazione in cui la guerra in corso non ha scopo. In un conflitto le cui le radici stanno nell’occupazione territoriale israeliana, nella chiusura dei confini e quindi nella creazione della più grande prigione a cielo aperto del mondo, a nulla serve combattere se poi non si verifica un reale cambiamento nella vita delle persone, che stanno lottando per aprire questa prigione, non per rimanerci.

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La posizione dell’ambasciatrice palestinese, tuttavia, è estremamente più radicale. «Quello che è stato chiamato guerra, io non lo chiamo così. Una guerra è uno scontro tra due eserciti. Ciò che si sta verificando da decine di anni è un’aggressione, una brutalità. Non si possono fare paragoni tra i bombardamenti israeliani e i missili di Hamas. Da quando è nata la rivoluzione palestinese nel 1965, tutti hanno partecipato, mano nella mano, compresi i cristiani palestinesi, nella lotta per la libertà. Questo pensiero è valido ancora oggi. E, sebbene il numero dei cristiani stia progressivamente diminuendo a causa di diversi fattori, come la crisi economica e la disoccupazione, il sindaco di Betlemme e quello di altre sette città, ad esempio, deve essere un palestinese cristiano, per legge. Perché crediamo che la Palestina sia di tutti i suoi cittadini, di qualunque religione essi siano. Auspichiamo, infatti, la fondazione di uno stato palestinese laico, democratico e in cui tutti possano vivere nell’uguaglianza dei diritti. I cambiamenti politici e la consapevolezza della differenza delle forze militari, economiche e politiche che si scontravano, nel 1993 hanno indotto la leadership palestinese a pensare la risoluzione in termini diversi. Su questa base, è stata firmata la dichiarazione dei principi di Oslo. Dichiarazione di principi, non accordo. Ci tengo a sottolineare che nessuna posizione radicale è stata presa, le porte sono sempre e comunque aperte a una soluzione condivisa».

 

Anche Padre Raed ha una sua personale idea sulle possibilità di risoluzione del conflitto che segna la storia della Palestina non da anni, ma da secoli, se non da millenni. «Quattromila anni fa, su questa terra, che un tempo si chiamava Canaan, è arrivato Abramo. Da Abramo tutto è cominciato, e con Abramo tutto potrà finire. “Due Stati per due popoli” è una mera illusione. Ci sono trecentocinquanta insediamenti con seicentocinquantamila coloni israeliani nel venti per cento di terre che la Palestina chiede di avere. Israele ha proposto di restituire il cinquantasette per cento dei territori occupati nel 1967, ma senza continuità geografica. Mi chiedo perché, a questo punto, le autorità palestinesi continuino a perdere tempo. Israele vuole uno stato di Israele, che possa riunire tutti gli ebrei del mondo. Vuole Gerusalemme capitale, rivendicando come propria una terra che, però, non appartiene storicamente solo a loro. Hanno il timore che, creando uno stato unico, il numero dei palestinesi superi il loro. Hanno paura di perdere la loro identità, ma stanno guardando la pagliuzza nell’occhio dell’altro, senza accorgersi della trave che c’è nei loro, di occhi».

 

Quest’anno è stato celebrato il cinquantesimo anniversario dalla morte di Martin Luther King, ed è proprio parafrasando l’attivista statunitense di colore che Padre Raed auspica una risoluzione: «I have a dream. Così come lo aveva Luther King. Cinquant’anni fa chi si sarebbe mai immaginato di vedere un afroamericano sedere nella sala ovale della Casa Bianca? Ebbene, un giorno ci sarà un presidente palestinese, che non è Abu Mazen, che siederà attorno a un tavolo. E ci sarà un presidente israeliano, che non è Netanyahu, che siederà attorno allo stesso tavolo. Questi due presidenti firmeranno un accordo, ma non accadrà presto. Accadrà forse tra dieci anni, forse tra una generazione, forse tra un secolo. Ma il giorno verrà, perché fondato sul determinismo storico: ciò che è basato su una enorme ingiustizia, un giorno crollerà».

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