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Gli Orfani di Bonelli, piccoli, spaventati, guerrieri

Aspettando l’annunciata seconda serie (uscirà il 16), il Baro recensisce la prima stagione di Orfani, la serie scritta da Roberto Recchioni e curata graficamente da Emiliano Mammuccari

di Francesco “baro” Barilli

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Un anno fa mi trovai a parlare con un mio amico del primo numero di Orfani (serie Bonelli scritta da Roberto Recchioni). Lui mi disse – cito a braccio: “non m’è piaciuto. E ho trovato pericolosamente fascista il suo messaggio”. Io sospesi il giudizio; e, pensai, avrei scritto un commento dopo la fine del primo ciclo narrativo (recentemente arrivata col n. 12). Per casini di tempo avevo poi rinunciato all’idea, successivamente la bella recensione di Matteo Stefanelli mi ha stimolato altre riflessioni facendomi tornare sui miei passi. Ed eccomi qui… (una precisazione: quando dico “la bella recensione di Stefanelli” intendo dire che leggendola emergono competenza, professionalità e onestà intellettuale di chi l’ha scritta; non significa che io sia completamente d’accordo)

Dunque: m’è piaciuto Orfani? Ho trovato il suo messaggio “pericolosamente fascista”?

Alla prima domanda: sì, m’è piaciuto. In un modo “visceralmente strano”. In quest’anno è stato forse l’unico fumetto di cui attendevo con ansia l’uscita e che leggevo non appena in mio possesso (gli altri generalmente si accumulano su scrivania e comodino, arrivando alla lettura solo quando una delle due pile minaccia il crollo…). Considerando il poco tempo che ho a disposizione, questo è un gran complimento verso il lavoro di Recchioni (e pure verso i disegnatori, s’intende).

In Orfani ho trovato un fumetto avvincente, dalla lettura scorrevole, graficamente riuscitissimo, innovativo rispetto ai canoni bonelliani. Il tempo di lettura veloce, su cui si sofferma ampiamente Stefanelli, non m’è sembrato un difetto: è una scelta stilistica che Recchioni ha volutamente adottato e coerentemente perseguito.

Peraltro, mi sembra si possa dire che il fumetto seriale da tempo sia segnato dalla ricerca di un ritmo sempre più veloce e incalzante. E pure l’osservazione di Stefanelli circa la periodicità mensile (se ho correttamente interpretato il suo pensiero, questa sarebbe inadatta a una fruizione veloce da parte del lettore, che dovrebbe essere stimolato da uscite più ravvicinate) non mi trova concorde: si veda lo standard di molte pubblicazioni Marvel, analogamente mensili e analogamente segnate da tempi di lettura assai veloci rispetto a quanto la “casa delle idee” ci aveva abituati anni fa. (sarebbe interessante approfondire la questione sul tempo di lettura. O, meglio, sarebbe interessante riflettere su quanto sia il nostro linguaggio – e di conseguenza il “linguaggio narrativo” in ogni mezzo espressivo – ad essersi fatto sempre più veloce e incalzante. Probabilmente è la vita stessa ad essersi fatta più frenetica, e anche il nostro “raccontare storie” si adegua di conseguenza, in un cambiamento che è antropologico prima che stilistico… Sarebbe interessante, ripeto, ma dispersivo in questo che vuole essere solo un commento ai primi 12 numeri di Orfani. Lasciamo quindi la riflessione nel cassetto e procediamo oltre)

Veniamo al secondo quesito, sul “messaggio” di Orfani.

La maggior parte di chi sta leggendo questa recensione credo conosca già la prima stagione della serie, per cui mi limito a una sintesi, brutale e certamente lacunosa, per gli altri.

Nel primo numero un attacco terroristico di origine aliena provoca migliaia di vittime in tutto il mondo. Alcuni ragazzini sopravvissuti vengono quindi addestrati come “forza speciale”. Devono diventare soldati spietati, un corpo d’élite fisicamente e strategicamente ineccepibile (e, soprattutto, ciecamente obbediente).

Una volta diventati adulti, il loro compito sarà rispondere all’apocalisse scatenata anni prima, annientando il nemico.

Ogni numero di Orfani si basa su due linee temporali, che si sviluppano progressivamente: nel passato assistiamo alla formazione degli “orfani” e alla mutazione dei rapporti interpersonali, fra loro e rispetto ai superiori; nel presente/futuro vediamo le loro azioni come soldati in guerra contro gli alieni. Una scansione della narrazione che Recchioni gestisce con bravura, facendo “crescere la storia” su entrambi i piani temporali e mantenendo alto l’interesse del lettore.

A circa metà serie il lettore scopre la verità dietro la tragedia del primo episodio: gli alieni non sono mai esistiti; la strage è stata solo una cinica macchinazione di chi gestisce il potere, interessato a un’operazione di manipolazione sociale di massa attraverso la creazione di un nemico comune; gli orfani sono utili al potere non tanto per la loro efficienza quanto per la loro totale (e in fondo ottusa) obbedienza; le loro stesse battaglie condotte contro gli alieni non sono mai avvenute, non esiste “il nemico”, ma solo il prodotto di allucinazioni scientificamente indotte.

Da qui si apre un dilemma nel gruppo di soldati, che si scopre manipolato da anni. Reagire e svelare a tutti la dura realtà? Oppure tacere per non compromettere quella stabilità sociale che, seppure basata su menzogne, è sorta dalle macerie post attentati? Tutto questo a sua volta porterà a una drammatica spaccatura negli Orfani: non ne rivelo gli sviluppi per non rovinare la lettura a chi volesse recuperare l’epilogo della saga.

E’ persino banale sottolineare che la sottotrama politica di Orfani ha tristi agganci con la realtà. La creazione di un nemico globale o l’amplificazione della “percezione del nemico”; la paura come strumento di controllo sociale, che produce l’accettazione della compressione dei diritti civili in nome di una maggiore sensazione di sicurezza; il fallimento della democrazia, che diventa un imbroglio semantico dietro cui si celano giochi di potere fatti all’oscuro dei cittadini che subiscono quei processi decisionali ai quali si illudono di partecipare… Questioni ampiamente presenti nella società attuale. Non so se Recchioni le abbia volutamente esplorate o se per lui siano semplicemente un pretesto narrativo: opzioni entrambe legittime e, soprattutto, l’una non esclude l’altra.

Sta di fatto che il “messaggio” di Orfani non è per nulla “fascista”. Probabilmente il lavoro di Recchioni non ha né intende avere “un messaggio”, e semmai risulta permeato da una sorta di disilluso nichilismo. Anche qui non voglio rovinare la sorpresa a chi volesse leggere la serie. Basti dire che l’epilogo sembra dire: “il potere mente ai cittadini, trattati come un gregge di cui manipolare il consenso; l’alternativa è una ribellione violenta che distrugga l’ordine costituito, anche in assenza di una prospettiva certa”.

Persino i rapporti umani più profondi non sfuggono a questa logica priva di speranze: anche due amanti come Ringo e Sam si scontrano più volte e alla fine l’uomo spezza il collo della ragazza proprio dopo un ultimo bacio. Una scena che Stefanelli ricorda nel suo pezzo come una fra le più emblematiche della serie: l’amore è importante, ma nemmeno il sentimento più profondo e sincero è una speranza sufficiente, in un mondo privo di speranze come quello degli Orfani. Il bacio di Ringo non è falso e neppure “un tradimento” (visto il successivo omicidio dell’amata): è solo l’estremo sigillo a una situazione priva di vie d’uscita.

Tutto bene e nessun difetto, dunque? In realtà anch’io, come Stefanelli, qualche perplessità ce l’ho. Una scarsa attenzione alle emozioni dei personaggi, dialoghi troppo caricati che a lungo andare diventano stereotipati. Condivido pure l’osservazione sulla scarsa empatia che si crea fra protagonisti e lettore, ma questa mi sembra un’altra scelta stilistica tipica di altri personaggi creati da Recchioni. Uno su tutti John Doe, la cui serie ho apprezzato specie nella prima stagione, che alternava slanci d’umanità ad atteggiamenti a dir poco scostanti, solo per fare un esempio.

Una nota a parte la merita l’attenzione che i media – specialmente su internet – hanno dedicato a Orfani, come spesso accade alle serie scritte da Roberto: alcuni detrattori sostengono che il dibattito che si solleva attorno ai suoi lavori sia dovuto, più che allo spessore degli stessi, all’abilità con cui lo sceneggiatore romano utilizza i social.

Che Recchioni utilizzi con abilità internet e i social network – come vetrina e “megafono” dei propri fumetti e progetti – è innegabile. E’ una normale strategia a livello commerciale e di comunicazione: se è bravo in questo mi sembra un pregio, più che un difetto.

Ma, credo, al di là che si possa provare simpatia o antipatia verso Roberto, gli si farebbe un torto pensando che “il rumore” sollevato dai suoi lavori sia solo l’eco del “personaggio” che lo sceneggiatore è diventato (o ha saputo diventare). Recchioni è, semplicemente, uno scrittore capace di progetti nuovi e in grado di gestire queste novità anche all’interno del cosiddetto “fumetto popolare”. Sa condurre la propria “autorialità” all’interno di standard narrativi consolidati come quelli della Bonelli o in generale del “fumetto classico d’avventura”. E’, insomma, uno scrittore che ha “qualcosa da dire”: che questo generi dibattito mi sembra normale e, soprattutto, un suo merito.

 

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