Da quando è esplosa la crisi ucraina Obama ha spinto l’Europa a mettere sotto embargo la Russia e poi ha cercato di vendergli il gas Usa. Ma non può farlo. Ecco perché.
di Franco Fracassi
Shell e British Petroleum hanno deciso di iniziare a disinvestire «perché non conviene ecnomicamente». Super petroliere adatte al trasporto di gas non sono disponibili, come non esistono porti attrezzati per ospitarle. Il costo di estrazione è elevatissimo. Nel dicembre 2013 parte dell’Ucraina si è ribellata all’ordine costituito e ai legami economici e politici che legavano il Paese a Mosca. Gli Stati Uniti e l’Occidente si sono schierati subito dalla parte dei ribelli. Nonostante la reazione russa non sia stata veemente (come si si sarebbe aspettato) il presidente statunitense Barak Obama ha chiesto (e ottenuto) all’Europa di mettere sotto embargo la Russia. Sempre la Casa Bianca ha, poi, insistito perché l’Europa sostituisse le forniture di gas russo con quelle provenienti dagli Stati Uniti via nave. «È il futuro», ha dichiarato. «Noi diventeremo presto i maggiori produttori di gas del pianeta. E per di più a basso prezzo», ha aggiunto. La realtà è molto distante dalla propaganda di Washington. Ecco quello che ha scoperto Popoff.
Nel sottosuolo statunitense non ci sono quelle immense nuvole di gas che si trovano in Russia, in Medio Oriente o in Estremo Oriente. Il gas made in Usa viene estratto dall’argilla. Si chiama gas scisto, perché si ottiene dalla fratturazione idraulica della roccia sfruttando la pressione dell’acqua, che crea e propaga una frattura in uno strato roccioso spingendo il gas a fuoriuscire.
Nel giro di pochi anni, su immense distese di campi coltivati o adibiti a pascolo sono sbucati i tipici tralicci che caratterizzano i pozzi petroliferi. L’economia e la vita di milioni di persone in Texas, Pennsylvania, Colorado e Kansas si è trasformata in meno di un lustro.
Obama e la sua Amministrazione hanno puntato molto sul gas scisto a basso costo. Il risultato è stato un mini boom dell’industria manifatturiera, che ha aiutato non poco gli Stati Uniti a rimettersi in piedi.
Come ha rivelato il “Washington Post”, Obama è così convinto della bontà di ciò che sta promuovendo che ha fatto pressioni perché nel negoziato Ttip tra Europa e Usa venisse data priorità al tema dell’energia. «Quando avremo un accordo commerciale in vigore, le licenze all’esportazione inerenti a progetti destinati in Europa riguardanti gas naturale liquefatto (gnl) saranno molto più semplici, e ciò è chiaramente molto importante alla luce della situazione geopolitica odierna», ha dichiarato il presidente statunitense.
Eppure, l’amministratore delegato della Shell Ben van Beurden ha dichiarato: «Le prestazioni finanziarie del gas scisto non sono francamente accettabili. Alcune delle nostre scommesse esplorative semplicemente non hanno funzionato». Annunciando, subito dopo, una «drastica riduzione negli investimenti inerenti allo sviluppo di gas da argille americano» e «la vendita di concessioni per 283.280 ettari».
David Huges è un analista ed esperto del campo energetico della Wisconsin Energy Corporation: «La produzione di gas da argille è cresciuta in maniera esplosiva fino ad arrivare a comprendere quasi il quaranta per cento della produzione totale americana di gas naturale. Tuttavia la produzione è stabile dal dicembre 2011 e l’ottanta per cento della produzione di gas da argille viene solamente da cinque siti, molti dei quali in declino. L’alto tasso di declino nell’estrazione dai pozzi di gas di scisto richiede una immissione continua di capitali, necessaria al fine di mantenere la produzione attuale. La cifra stimata per perforare più di settemila pozzi all’anno è di circa quarantadue miliardi di dollari. Per fare un paragone, il valore del gas da argille prodotto nel 2012 e stato di soli trentadue miliardi e mezzo di dollari».
Si legge su un rapporto scritto da Kenneth Medlock, esperto di gas per il Baker Insitute: «Uno dei problemi relativi all’offerta americana di gas all’Europa è il fatto che richiederebbe una infrastruttura costosa e gigantesca. Si parla della costruzione di nuovi terminal in America per l’arrivo del gas, terminal che riescano a gestire le navi super petroliere adoperate per il suo trasporto, oltre alla creazione di porti riceventi enormi ed attrezzati in Europa. Poi c’è la questione dovuta a varie leggi americane riguardanti l’esportazione di energia nazionale, oltre ad evidenti fattori di fornitura, in quanto non esistono al momento porti operativi capaci di gestire l’approvvigionamento di gas naturale negli Stati Uniti. Il Sabine Pass gnl è l’unico terminal ricettivo attualmente in costruzione e si trova in Louisiana, a Cameron Parish. Il proprietario dell’infrastruttura è la società Cheniere Energy nel cui consiglio di amministrazione siede John Deutch, ex capo della Cia. Il Sabine Terminal presenta tuttavia un altro ostacolo: la maggior parte del gas è stata già preacquistata da coreani, indiani e da altri clienti asiatici. Non all’Europa».
«Anche se un’enorme capacità portuale venisse messa in piedi per soddisfare la domanda di gas europea, ciò spingerebbe i prezzi interni di gas naturale al rialzo e metterebbe così fine al mini boom manifatturiero scaturito dalla disponibilità di gas abbondante ed a buon mercato. Il costo finale del gas americano per i clienti europei sarebbe molto più alto dell’attuale gas russo che viene instradato attraverso i gasdotti Nord Stream o attraverso l’Ucraina», prosegue Medlock. «Super petroliere e gassiere specializzate in grado di rifornire il mercato europeo al momento non ce ne sono. Costruirle richiederebbe anni e, considerando le inevitabili approvazioni ambientali da richiedere e i tempi di produzione, sette anni è il tempo minimo indispensabile da tenere in considerazione come opzione migliore».