Soumalia Sacko veniva dal Mali, faceva il bracciante, aveva 29 anni. Lo hanno preso a fucilate da 60 metri, cercava lamiere per la sua baracca a S.Ferdinando
di Checchino Antonini
Si chiamava Soumaila Sacko. Lo hanno preso a fucilate mentre cercava lamiere per la sua baracca in una fabbrica abbandonata. «Questa mattina decine di braccianti di San Ferdinando nonostante tutto hanno avuto ugualmente il coraggio di scendere in piazza con l’Unione Sindacale di Base, per lo sciopero del settore proclamato dopo l’assassinio di Soumaila, che alle lotte di USB aveva attivamente partecipato. Chi non ha manifestato, ha comunque scioperato. Con loro si sono mobilitati i braccianti della Puglia, bloccando completamente il lavoro, e quelli della Basilicata. Presidi sono stati organizzati davanti alle prefetture di Roma, Milano, Potenza. Con i braccianti, con chi ha percorso migliaia di chilometri in cerca di futuro trovando solo vessazioni e umiliazioni, si sono schierati compatti i lavoratori della Logistica, altro settore che vive e prospera sulla pelle dei migranti, i quali si mobiliteranno mercoledì 5 e giovedì 6 nel nome di Soumaila Sacko».
Ieri notte colonne di fumo si sono alzate dai falò di rifiuti e copertoni accesi per rabbia. «Vogliamo un incontro con il ministro del lavoro, con il Prefetto, i sindaci e la Regione per avviare insieme un progetto di accoglienza che superi le tendopoli e favorisca gli insediamenti abitativi», ha chiesto la delegazione di migranti e sindacalisti al sindaco di San Ferdinando, Andrea Tripodi, e al vicario della Questura di Reggio Calabria. L’era Salvini comincia così, col ministro a pochi chilometri a pontificare sulla «pacchia» dei migranti in Italia e il giorno dopo l’omicidio con le promesse di sempre di «trasparenza» delle indagini. Ma già a caldo un lancio di agenzia e i titoli conseguenti spiegavano come un migrante morto e due feriti fossero «il bilancio di una sparatoria» e non di un tirassegno vigliacco. Gli hanno sparato da sessanta metri in località Ex Fornace, a San Calogero, nel vibonese. Gli inquirenti «avrebbero le idee ben chiare e starebbero seguendo una pista precisa per risalire all’autore». La vittima è un bracciate originario del Mali di 29 anni, Soumaila Sacko, uno che lottava per i diritti sociali e sindacali dei braccianti. Raggiunto alla testa da alcuni pallettoni sparati con un fucile, l’uomo è stato trasportato d’urgenza nell’ospedale di Reggio Calabria dove è morto poco dopo il ricovero. Lievi le ferite per gli altri due. I tre, tutti regolari in Italia, secondo la ricostruzione dei carabinieri della Compagnia di Tropea che conducono le indagini coordinate dalla procura della Repubblica di Vibo Valentia, erano giunti a piedi in un vecchio capannone abbandonato da San Ferdinando (Reggio Calabria) dove vivono per prendere alcune lamiere da utilizzare nella baraccopoli. «Mentre eravamo li – ha raccontato stamani uno dei feriti, Drane Maoiheri, di 39 anni, già tornato alla baraccopoli – si è fermata una Fiat Panda bianca vecchio modello ed è sceso un uomo con un fucile che ci ha sparato contro 4 volte». La «vendetta per il furto delle lamiere» sarebbe l’ipotesi su cui si sono concentrate le attenzioni degli investigatori «che escludono la matrice xenofoba». Nella tendopoli ufficiale vivono circa 800 migranti, nella baraccopoli distante poche centinaia di metri ne vivono attualmente altri circa 2-300, il picco, con 4mila presenze si raggiunge nel periodo invernale per la raccolta degli agrumi e dei kiwi. «Non è vendetta per furto – dice a Popoff, Massimo Lauria, reporter che segue da tempo anche per la Tv della Svizzera italiana, la situazione della Piana di Gioia Tauro – dire questo equivale a far passare l’idea che si sia trattato di legittima difesa. Ma è falso. Innanzitutto perché i tre lavoratori agricoli (due sono stati feriti con lo stesso fucile che ha ucciso Sacko) non stavano rubando niente a nessuno: la Fornace Tranquilla srl di San Calogero è una discarica abusiva di rifiuti pericolosi (130mila tonnellate), da anni posta sotto sequestro dalla magistratura.
Secondo perché chi ha sparato l’ha fatto dall’alto, a una distanza di circa 70 metri e alle spalle dei tre ragazzi, che non si erano accorti di nulla. Chi ha sparato non era in pericolo di vita». Sacko viveva nella parte nuova ma aveva deciso di aiutare i due compagni a costruirsi un riparo. «Servivano delle lamiere e siamo andati in quella fabbrica – racconta un sopravvissuto, Drame Madiheri, 39 anni, anche lui maliano – siamo partiti a piedi dalla tendopoli e giunti sul posto avevamo fatto in tempo a recuperare tre lamiere quando qualcuno è arrivato a bordo di una Fiat Panda vecchio modello e ci ha sparato addosso, Sacko è caduto colpito alla testa. Io ho sentito un bruciore alla gamba. Ho visto quell’uomo, bianco, con il fucile. Ha esploso quattro colpi dall’alto verso il basso. Io tenevo una lamiera con le mani quando ho visto quell’uomo. Ho visto Sacko cadere a terra raggiunto alla testa. Siamo scappati. Poi ho chiamato i carabinieri. Non so perché ci ha sparato. Non si può morire così. Sacko l’ho conosciuto nel 2016 quando sono arrivato a San Ferdinando. È stato lui che mi ha accolto visto che si trovava già qui da qualche anno ed abbiamo iniziato a fare la stessa vita, cercare un lavoro nei campi e poi alla sera mangiare qualcosa e lottare per vivere. Siamo scappati dalla nostra terra per fame e per cercare un pò di fortuna, sfidando il deserto e poi il mare».
Lo conosceva bene anche don Pino Demasi, referente di Libera nella piana di Gioia Tauro. «Si accompagnava spesso – dice – a don Roberto Meduri, il parroco di S. Antonio. Recentemente è stato ricoverato in ospedale a causa di un’ulcera e alcuni di noi hanno fatto la notte in ospedale con lui. Soumaila è morto perché nei nostri territori qualcuno ha deciso così. In questa terra si muore non solo di ‘ndrangheta, di tumore e di malasanità ma anche di razzismo» conclude amaramente anche se gli investigatori hanno da escluso la pista xenofoba.
«La verità è che la tendopoli di San Ferdinando – dice ancora Lauria, che è anche socio di Popoff – è continua causa di morte per le condizioni di vita a cui sono costretti quelli che ci abitano. A gennaio è toccato a Becky Moses, bruciata nell’ennesimo rogo delle tende. Ora a Sacko, che insieme a due amici stava recuperando lamiere per la baracca in cui vivere. Ma se questi lavoratori avessero un contratto regolare con cui poter affittare una casa, se a tutti loro questi ragazzi venissero forniti documenti regolari (Sacko peraltro li aveva), quella tendopoli potrebbe essere chiusa una volta per tutte. Lo sa bene il sindaco di Riace, Domenico Lucano, che ha fatto dell’accoglienza in città un esempio di convivenza che funziona, un modello che crea lavoro, sviluppo e capacità di far vivere insieme culture differenti. Lo sanno i politici che attaccano questo modello, perché politicamente non conviene ammettere che si può fare ed è più semplice parlare di respingimenti e rimpatri, più che sforzarsi di trovare soluzioni vere. Sarebbe ora che anche l’informazione raccontasse le realtà per quello che sono, senza costruire narrazioni di comodo, che non aiutano nessuno a capire che cosa ci accade intorno. Sono stato molte volte a San Ferdinando, in quella che per comodità chiamiamo tendopoli, ma che è a tutti gli effetti una piccola città in cui vivono circa 3 mila lavoratori. Là dentro si sperimentano le stesse dinamiche di ogni città, con l’aggravante che non esiste un sistema fognario, che non c’è corrente elettrica, non ci sono gabinetti, né acqua calda. E le persone vivono lì dal 2010, da dopo la rivolta di Rosarno, in tenda o in baracche di fortuna, costruite con materiali pericolosi come l’amianto, sbriciolato in più punti di quell’area inquinata. Quegli stessi materiali che la ‘ndrangheta e imprenditori con pochi scrupoli smaltiscono nelle discariche abusive come la ex Fornace Tranquilla di San Calogero dove Sacko è stato impallinato a colpi di fucile».
«La verità è che il governo “gialloverde” a trazione leghista nutrirà ancora di più sentimenti razzisti e xenofobi, rompendo ogni argine, foss’anche quello dell’ipocrisia. Non ci potremo stupire se qualcun’altro si sentirà legittimato al tiro al bersaglio contro i “neri”, che sia per coprire la violenza contro chi prova a ribellarsi o no, poco importa», commenta la direzione di Sinistra anticapitalista solidarizzando con i compagni di Sacko e l’Usb.
«“È finita la pacchia” – scrive Usb che per ha proclamato uno sciopero bracciantile con assemblee nei posti di lavoro – la dottrina di Matteo Salvini, ha fatto scorrere il primo sangue ieri sera in Calabria, il sangue di Soumaila Sacko, migrante maliano di 29 anni sempre in prima fila nelle lotte dell’Unione Sindacale di Base. Soumaila è stato ucciso da un tiro al bersaglio contro “lo straniero”, il nero cattivo da rispedire nel paese d’origine. Il triste seguito delle parole pronunciate dal nuovo ministro di polizia. Tutto questo al ministro di polizia Salvini non interessa. Troppo impegnato a minacciare a destra e a manca: i migranti, le ong, il sindaco di Riace perché si schiera con gli ultimi». «Hanno ammazzato uno di noi – dice anche Viola Carofalo, portavoce di PaP – un bracciante, uno che si spezzava la schiena nei campi, sotto il sole, senza diritti. Hanno ammazzato un lavoratore, uno che stava sempre in prima fila per i diritti Usb. Uno giovane, nemmeno 30 anni, tutta la vita davanti. Nessuno lo dirà. La sentenza è già stata scritta: hanno sparato a un nero per legittima difesa, perchè rubava. E invece Soumaila stava cercando, forse, lamiere per costruirsi una baracca in cui vivere nelle poche ore di stacco dal lavoro, in una fabbrica abbandonata, dismessa. Qualcuno si è divertito a fare il cecchino, sparandogli dalla distanza di 60 metri – altro che pericolo! – e alle spalle. I lavoratori dei campi di Gioia Tauro vivono nella tendopoli di san Ferdinando, in 4000. I padroni dei campi li scelgono come fossero al supermarket e li fanno lavorare come schiavi, arricchendosi enormemente. Il problema non è cercare lamiere per costruirsi un riparo, il problema è essere costretti a vivere in un riparo fatto di lastroni d’alluminio per guadagnare il pane. Qualcuno chiama tutto questo “pacchia”, come il nuovo ministro degli Interni e Vicepremier Matteo Salvini.
«Per il quinto anno consecutivo dobbiamo purtroppo constatare che sull’emergenza profughi e lavoratori stagionali di San Ferdinando ben poco e cambiato», ha detto pochi giorni prima dell’omicidio Jennifer Locatelli, coordinatrice e autrice del Rapporto sulle condizioni di vita e di lavoro dei braccianti stranieri nella Piana di Gioia Tauro realizzato da Medu, Medici per i diritti umani, in collaborazione con Arci «Iqbal Masih» di Venosa, Flai-Cgil di Gioia Tauro, Comune di Rosarno, Terra Onlus, Associazione culturale Zalab e Amisnet/Echis. Secondo il rapporto sono 3.500 le persone, distribuite in vari insediamenti sparsi sul territorio utilizzate come manodopera a basso costo dai produttori locali di arance, clementine e kiwi. La maggior parte di loro si concentra a San Ferdinando dove permangono gravi carenze igienico sanitarie a livello abitativo e di sicurezza. «Nel lavoro – ha aggiunto Locatelli – se anche si registra un lieve incremento delle regolarizzazioni dei lavoratori, che raggiunge appena il 30% del totale, non vengono sempre rispettati i più elementari diritti ed è spesso a rischio anche la stessa paga del lavoro». Il rapporto Medu riguarda anche aspetti come conoscenza della lingua, condizioni sanitarie, documentazione per motivi umanitari o richiesta asilo. «Il quadro complessivo resta allarmante – è scritto nel rapporto – anche se non sono mancate promesse e dichiarazioni da parte delle istituzioni di interventi per migliorare le condizioni di vita e di lavoro dei braccianti. Ma si tratta di un impegno sulla carta e a parole che non si è ancora tradotto in azioni concrete». «Le nostre più che proposte sono raccomandazioni – ha sostenuto ancora Locatelli – nel campo abitativo, lavorativo, delle condizioni giuridiche ed anche della salute. Soluzioni che sono state già individuate dalle istituzioni e contenute nei protocolli e nelle convenzioni sottoscritte negli anni. Diciamo che c’è già una sensibilità. Quello che manca sono dei passi concreti. Cominciamo a fare dei primi passi per poter vedere un cambio reale della situazione».
«Il silenzio del ministro degli Interni sull’assassinio del bracciante africano in Calabria è vergognoso quanto le sue dichiarazioni. Non è la prima volta che si spara contro i migranti in quelle zone, accade almeno dal 2004. Accade dopo che si è dimenticata la rivolta di Rosarno e mai si è voluta affrontare la condizione lavorativa e abitativa di tanti uomini e donne. Ma il neo ministro dell’interno è stato chiaro sin da ieri “la pacchia è finita” ha dichiarato e immediatamente per qualcuno è scattata la licenza di uccidere. Forse Salvini non fa tweet non solo perché per lui la vita di un immigrato non vale nulla ma anche perché sospetta che come a Fermo a sparare sia stato un suo sostenitore. Siamo dalla parte di lavoratori come Sacko, dalla parte di chi come lui continua ad essere sfruttato per pochi euro. E il 16 giugno manifesteremo a Roma al fianco dei suoi compagni», dice anche Maurizio Acerbo, segretario nazionale di Rifondazione Comunista, esponente del coordinamento nazionale di Potere al popolo.