Benetton è l’unico dei grandi marchi a non aver versato nemmeno un dollaro al fondo ONU per risarcire le vittime del Rana Plaza. Continua la campagna Abiti puliti
di Enrico Baldin
Anche Benetton deve pagare per il disastro del Rana Plaza. 1138 morti, oltre 2000 feriti, 40 milioni di dollari di risarcimenti riconosciuti alle vittime e ai loro familiari. Questi, a oltre 18 mesi di distanza, sono i numeri del più grande disastro della storia del lavoro nel settore tessile.
Era il 24 aprile 2013 quando il Rana Plaza – il palazzo nella periferia di Dacca – crollò su sé stesso uccidendo e ferendo gravemente lavoratrici e lavoratori che si erano recati a lavoro nonostante sul Rana Plaza pendessero le accuse, sfociate nella preventiva evacuazione, di chi aveva già osservato crepe e segni di cedevolezza. Evacuazione e denunce avvenute poco prima che l’edificio crollasse, ma che non fermarono le ire dei datori di lavoro che ordinarono ai lavoratori, sotto la minaccia di licenziamento, il rientro nel luogo di lavoro che di lì a poco si sarebbe trasformato nella loro tomba. Scandali del genere però, nei tg fanno giusto il tempo di una comparsata per poi veder cadere tutto nel dimenticatoio delle coscienze collettive e mediatiche.
A tentare di contrastare tutto questo, una campagna partita da poco che punta il dito verso uno dei grandi marchi che avevano commissionato i loro prodotti a una ditta del Rana Plaza. «Benetton deve pagare» è la scritta che troneggia a caratteri cubitali nel sito internet dell’associazione Abiti puliti, appendice italiana del movimento internazione Clean cloches campaign. Da anni Abiti puliti si batte perché quello dell’abbigliamento e della moda non siano settori poggiati sul lavoro sottopagato di operaie ed operai del sud del mondo, e in questo senso ha seguito minuziosamente anche quanto accaduto dal disastro del Rana Plaza in poi.
Ad inizio anno l’agenzia ONU per il lavoro istituì il fondo per la raccolta del denaro necessario per risarcire le vittime del Rana Plaza. In base ad un meccanismo di calcolo accettato dal governo bengalese venne fissato a 40 milioni l’entità dei risarcimenti spettanti alle vittime ed ai loro familiari. Tra di loro c’è chi ha perso una moglie, una figlia o un fratello, e chi ha perso una gamba o un braccio. Molti dei marchi che avevano commissionato la produzione di abiti in Bangladesh aderirono al fondo. La stessa Benetton – che dapprima negò un suo coinvolgimento e poi venne smascherata da alcune foto di sue magliette sepolte tra macerie e cadaveri – disse per bocca dell’allora amministratore delegato «Chiunque nel nostro settore ha l’obbligo morale di intervenire in sostegno delle vittime».
Benetton però ad oggi è l’unico dei grandi marchi a non aver versato nemmeno un dollaro al fondo istituito dall’agenzia dell’ONU per il lavoro. Gli attivisti chiedono alla multinazionale di origine trevigiana il versamento di almeno 5 milioni di dollari, sulle basi di un calcolo improntato sui profitti che il gruppo realizza. «Nel 2013 Edizioni srl, compagnia sotto il totale controllo della famiglia Benetton e che possiede la Benetton Group, ha realizzato profitti per 139 milioni di euro» – si legge nel sito della campagna di pressione contro Benetton – «Questa cifra è stata raggiunta grazie ad abiti prodotti da lavoratrici e lavoratori di tutto il mondo, compreso il Rana Plaza».
Al sito della campagna di pressione si possono trovare maggiori dettagli e le istruzioni per aderire.