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Grillo e Petacco alla ricerca del Mussolini buono

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Beppe Grillo alla ricerca del Mussolini buono, rovinato dalle cattive compagnie. Sul blog del proprietario dei 5 stelle un insidioso esercizio di revisionismo storico

di Francesco “baro” Barilli

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Mussolini fu estraneo al delitto Matteotti. Un’intervista del blog di Grillo ad Arrigo Petacco compie un nuovo balzo nel revisionismo storico. Nessuno sembra essersi preso la briga di rispondere alle numerose inesattezze contenute nell’intervista.
Il caso Matteotti è stato l’unico episodio a seguito del quale, per almeno 6 mesi, il governo fascista vacillò seriamente. Sembrò persino che il regime potesse crollare… L’opposizione scelse di lasciare il Parlamento, con la cosiddetta secessione dell’Aventino. I liberali confidavano in una mossa del Re che non arrivò. I cattolici erano ostili ai fascisti ma diffidenti verso socialisti e comunisti. La scelta dell’Aventino si rivelò sterile e il midollo marcio di questo Paese fece il resto… Successivamente, dopo la svolta dittatoriale che trova origine nel celebre discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 e concretizzazione nelle seguenti e cosiddette “leggi fascistissime”, il regime si mantenne saldo fino ai tragici fatti della seconda guerra mondiale e alla sua conseguente caduta (che qui non dettaglieremo).

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Qualche dato per iniziare

Il fascismo giunse al potere con la marcia su Roma del 28 ottobre 1922. Le squadre fasciste non avrebbero avuto possibilità di sconfiggere una reale opposizione da parte dell’esercito, qualora fosse stata disposta. La vera forza del fascismo, come in altre occasioni, fu determinata dagli appoggi politici ed economici di cui già disponeva: gran parte del mondo imprenditoriale e finanziario e pure dell’esercito. Dopo che Antonio Salandra, la mattina del 29 ottobre 1922, rinunciò all’incarico di primo ministro, il Re disse a De Vecchi (un quadrumviro) di informare Mussolini, in quel momento ancora a Milano, che avrebbe avuto l’incarico di formare il nuovo esecutivo: in questa fase fu un governo di coalizione, sostenuto anche da esponenti di altre aree politiche.
Le elezioni politiche del 6 aprile 1924 si svolsero secondo la cosiddetta “legge Acerbo” (legge 18 novembre 1923 n. 2444), fortemente voluta da Mussolini stesso. In base a tale normativa, se una lista avesse ottenuto la maggioranza relativa raggiungendo almeno il 25% dei consensi si vedeva assegnati i 2/3 dei seggi. I rimanenti venivano attribuiti alle altre liste in proporzione ai voti ottenuti. Nella lista nazionale, oltre al partito fascista, confluirono esponenti liberali e popolari filofascisti. Si trattava di un cartello elettorale a forte prevalenza fascista (è infatti noto anche come listone Mussolini) ideato per blindare, unitamente alla legge Acerbo, il responso delle urne a favore del fascismo. Il risultato elettorale, al di là delle denuncie di violenze e intimidazioni, fu schiacciante. La lista nazionale ottenne più del 60% dei suffragi, staccando pesantemente il partito popolare fermo al 9%. Il neonato partito socialista unitario di Matteotti si fermò al 5,90%.
Con un celebre intervento alla Camera, il 30 maggio 1924, Matteotti denunciò il clima di violenze e intimidazioni in cui si erano svolte le elezioni, chiedendone in sostanza l’annullamento. Il 10 giugno successivo fu rapito e ucciso.

L’omicidio e la “Ceka fascista”

La squadra era composta da Amerigo Dumini, Albino Volpi, Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo. In realtà su numero e composizione del commando ci sono versioni contrastanti. Altri soggetti furono fermati nell’immediatezza del fatto, risultando però estranei all’azione, perlomeno nelle fasi esecutive di rapimento e omicidio. Interessante, fra gli altri, è la figura di Otto Thierschwald: detenuto fino a pochi giorni prima del delitto, fu rilasciato ed ebbe da Dumini l’incarico di pedinare Matteotti e di studiarne comportamenti e orari, a dimostrazione dell’attenta premeditazione.
Ma Dumini poteva disporre in autonomia di decisioni operative gravi come l’aggressione al principale esponente dell’opposizione? Questa domanda ci porta alla cosiddetta “Ceka fascista”, di cui Mussolini negò l’esistenza nel celebre discorso del 3 gennaio 1925, ed era già operativa prima del delitto Matteotti.
Secondo alcune fonti Mussolini sollecitò direttamente l’intervento della banda Dumini per “punire” il segretario socialista: l’affermazione è presente sul sito del ministero dell’interno nella sua scheda sul dopoguerra. “Si dice che Mussolini, profondamente irritato dal discorso di Matteotti alla Camera, esclamasse: Cosa fa questa Ceka? Cosa fa Dumini? Quell’uomo dopo quel discorso non dovrebbe più circolare… “. Sempre qui si sostiene che “la Ceka fascista non fu, comunque, una struttura sofisticata e professionale ma poco più che una squadraccia di bravi di regime, che si resero protagonisti di violenze di basso livello, fino ad incappare per eccesso di zelo, approssimazione e gratuita brutalità ‘nell’incidente Matteotti’, che rischiò di travolgere Mussolini”.
Giovanni Marinelli, segretario amministrativo del partito e depositario dei fondi, sarebbe stato il referente diretto della Ceka, assieme a Cesare Rossi (capo ufficio stampa della presidenza del consiglio).
Sottoposti a interrogatori dopo il delitto, di questa polizia clandestina parlarono esplicitamente Filippo Filippelli (direttore del Corriere Italiano: procurò la Lancia Lambda usata per il sequestro) e Aldo Finzi (sottosegretario agli Interni e vice capo della Polizia).
Da citare è pure una lettera che Emilio De Bono (ex quadrumviro e all’epoca capo della polizia) inviò a Italo Balbo e altri camerati il 24 giugno 1924. Il tono accorato della lettera, confidenziale e destinata a restare riservata, e la sua datazione (precedente le accuse per il delitto che investiranno pure De Bono) rendono il documento molto interessante.
“Dumini io lo volevo perseguire fin da quando fece, o meglio tentò, la vendita di armi alla Jugoslavia. Subito dopo le elezioni … dissi a Mussolini: dì a Rossi che mandi fuori dai coglioni Dumini. Anche per Volpi dissi cento volte di farlo arrestare … ma non vi riuscii mai”. Al di là dell’intento chiaramente autoassolutorio, sono parole chiarissime: il capo della polizia lamenta di non poter perseguire due delinquenti a causa dell’altissimo livello di protezione politica di cui godono.
In un passaggio successivo De Bono si difende dall’accusa di non aver fatto arrestare subito Rossi: “Non potevo arrestarlo, perché non dovevo dimenticare che egli dipendeva direttamente dal presidente del consiglio, che sapeva tutto e che avrebbe saputo darmene l’ordine…”. Tanto perché sia chiaro chi comandava e quali erano le reali gerarchie sotto il regime…
Ancora più interessante è la versione che De Bono fornisce di un incontro del 12 giugno 1924 (due giorni dopo l’omicidio): “Rossi disse: se arrestate Dumini, Volpi e compagni … quelli parleranno e diranno che hanno avuto l’incarico da noi di far fuori Matteotti … Rossi proseguì: c’era l’assenso, anzi l’ordine del presidente … Marinelli soggiunse: … quando andai dal presidente al quale prospettai la formazione di una specie di Ceka … e gli feci il nome di Dumini come capo, il presidente assentì”. Non credo serva aggiungere altro…

La coscienza di Mussolini è sicuramente sporca del sangue di Matteotti (e di altri…). Che l’omicidio sia stato commesso su suo ordine esplicito è meno certo e le ricostruzioni variano da precise ammissioni preventive (l’ipotesi del Duce che si rivolge a Marinelli o ad altri sollecitando l’intervento della banda Dumini) a ipotesi più sfumate. Questo ci porta ad altri scenari…

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La questione Sinclair Oil

Nell’aprile 1924 il governo aveva stipulato un accordo con la compagnia americana Sinclair Oil, accordandole il monopolio delle ricerche petrolifere in Italia. Dietro l’accordo ci sarebbero stati, secondo il segretario del PSU, tangenti a favore del partito fascista.
Matteotti aveva accennato all’accordo stretto fra il governo e la compagnia americana in un suo articolo apparso postumo nel luglio 1924 su English Life (“Machiavelli, Mussolini and fascism”), riportato su varie fonti (si veda ad esempio treccani.it, voce su Giacomo Matteotti). L’articolo dimostra l’intenzione del parlamentare di allargare la propria critica al governo, non limitandosi alla sola polemica sulle elezioni. E’ anzi accertato che, nei giorni precedenti il suo omicidio, stava preparando un nuovo intervento alla Camera, imperniato proprio su questo scandalo politico-affaristico: era previsto per i giorni successivi il 10 giugno, forse già per il giorno dopo. Peraltro, sempre in quell’articolo postumo, Matteotti alludeva pure ad altri illeciti: “Ancora più funesto è il comportamento di molti capi fascisti di spicco che conducono una stringente opera di grassazione su società private e semipubbliche con lo scopo di finanziare i giornali fascisti e altre organizzazioni a proprio totale interesse e profitto”. Secondo questa ricostruzione, è plausibile che Matteotti non sia stato “punito” per quel che aveva detto, ma fatto tacere per quanto poteva dire…
L’eliminazione di Matteotti può essere stata frutto, più che di un unico movente, di più fattori concomitanti e di più mandanti, tutti vicini all’allora presidente del consiglio. E molti, fra questi, avevano motivo di temere le rivelazioni che Matteotti poteva fare sugli “scandali politici affaristici”. Far passare l’assassinio come una semplice vendetta di “squadristi incattiviti” dalle “provocazioni” di Matteotti fu persino una buona scusa per il fascismo, che riuscì così a occultare moventi più complessi e persino più compromettenti.

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Alcune affermazioni di Petacco

Petacco, sul blog di Grillo fa propria l’argomentazione del difensore di Dumini: “… alla fine uno dei 4 con una mano trova sotto il lunotto posteriore una lima arrugginita e con quella colpisce alla testa Matteotti e lo uccide. … voi pensate che, 10 giorni prima che aveva stravinto le elezioni politiche, il capo del governo, non ancora dittatore, per fare uccidere il capo dell’opposizione manda 4 manigoldi con una lima arrugginita?”. Ma il ruolo di difensore di Dumini a quel processo fu assunto da Farinacci mentre era segretario del partito fascista, a dimostrazione dell’attenzione che il regime rivolse ai carnefici e non alla vittima.
Secondo la perizia medico-legale Matteotti fu ucciso “con uno o più colpi di arma da taglio inferti nella parte superiore del torace”. Presumibilmente a sferrare i colpi mortali fu Volpi.
Prima di disfarsi del cadavere, seppellito sommariamente in un boscaglia nei pressi di Roma, gli assassini gettarono sul cadavere la lima arrugginita a cui fa riferimento Petacco: un pezzo di ferro che, malgrado le perizie, per anni sarà ritenuto – sbagliando – l’arma del delitto, mentre in realtà servì, assieme ad altri attrezzi, a scavare quella fossa improvvisata.

Ma il blogger di Grillo insiste sui passaggi di un libro – “La storia ci ha mentito” – in cui Petacco cita Edda Ciano, figlia di Mussolini, su una presunta volontà del Duce riavvicinarsi al Partito socialista di allora per un governo di pacificazione nazionale. Sarebbe la quadratura del cerchio: quell’ipotesi di un fascismo buono caro a settori di cinquestelle. Per Petacco «Non c’è dubbio, ma anche lo stesso De Felice lo riconosce, solo che c’è stata tutta questa retorica antifascista che ha confuso le idee a tutti, Mussolini in quel periodo lì voleva agganciare la parte morbida del socialismo, in molti erano già d’accordo con lui a entrare nel governo, solo che la lotta era tra gli estremisti fascisti e gli estremisti socialisti».

La questione è molto più complessa. E’ sicuramente vero che Matteotti, quale segretario del PSU, a quell’epoca doveva tenere a bada spinte collaborazioniste fra i suoi deputati e il fascismo. La cosa oggi può apparire paradossale, ma molte fonti accennano a queste tensioni interne e alla fermezza usata da Matteotti verso i “collaborazionisti”. Anche il noto film “Il delitto Matteotti” del 1973 (realizzato in periodi non certo revisionisti, assai duro col fascismo e peraltro coerente con la convinzione di allora che il delitto fosse dovuto esclusivamente alla reazione dopo l’intervento alla camera del 30 maggio) accenna al fatto, seppure in una sola battuta: quando Turati si sta complimentando dopo il suo discorso, Matteotti risponde: “Voi guardavate i fascisti, io guardavo qualche nostro compagno: credete che abbia convinto anche loro a non calarsi le braghe davanti a Mussolini?”.

I sei mesi successivi all’omicidio del segretario socialista furono, per il regime, i peggiori durante tutta la tragica esperienza che il ventennio ha rappresentato per l’Italia. Il ceto medio, a suo tempo schieratosi a favore del fascismo favorendone l’ascesa, durante quei mesi oscillò tra sincera indignazione morale e più ipocriti dubbi di opportunità. Anche giornali non schierati a sinistra, come il Corriere della Sera, furono molto critici verso il governo.
Il matrimonio tra il fascismo e le altre strutture di potere (più o meno palesi: mondo imprenditoriale, gerarchie ecclesiastiche, monarchia) merita altre e diverse considerazioni. Come ogni matrimonio d’interesse non vacillò certo per tensioni etiche e si rinsaldò presto. Proprio quando Mussolini ebbe la certezza di aver ricucito questi rapporti, tenne il celebre discorso del 3 gennaio, a cui fecero seguito quelle “norme eccezionali” (le cosiddette legge fascistissime) che trasformarono un regime già illiberale in una feroce dittatura.

la versione integrale su francescobarilli.blogspot.com/

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